M.C.I. e Unità Pastorali: basi per un progetto pastorale


 M.C.I. e Unità pastorali : basi per un progetto pastorale
 Spunti per incontri interzonali ( Zurigo 14.9.1999, Berna 16.11.99)
Le basi per un progetto pastorale per la MCI
e per l'unità pastorale di zona

Introduzione

"Progetto per la MCI e per l'unità pastorale": intendiamo discuterne assieme le modalità per poi passare alla pianificazione e alla implementazione.

Quando si parla di pianificazione pastorale, alcuni ritengono che il termine non si addica all'impegno religioso poiché la pastorale non segue i criteri di una azienda e la grazia di Dio non può essere coartata.

Di fatto si tratta di uno strumento che ci aiuta a verificare se davvero le nostre scelte ed il nostro impegno sono portati avanti in nome di Dio o semplicemente la pastorale migratoria è una nostra avventura personale.

Perché mettersi alla ricerca di fondamenti teologici

Dobbiamo anzitutto avere chiari in testa i principi teologici da cui partiamo: sono essi a guidare ogni nostra scelta, a dare una direzione al nostro operato, a motivare le persone che collaborano con noi, a permettere un dialogo fruttuoso con la chiesa locale e la parrocchia e ad indirizzarci tutti sulla via della comunione e della cattolicità.

Riscontriamo di recente un interesse crescente da parte di biblisti e teologi su alcuni aspetti che interessano in modo particolare la nostra pastorale specifica e specializzata. Il n. 128 della rivista "Studi Emigrazione" enumerava nel dicembre del 1997 1.604 articoli apparsi su riviste bibliche e teologiche dal 1980 a 1997 e che avevano attinenza con il mondo delle migrazioni. Manca, tuttavia, una sintesi teologica.

Esistono numerosi Atti di Convegni (cfr. quelli organizzati dalla SKAF o dalla Delegazione o dalla Fondazione ecclesiale Migrantes sulla pastorale migratoria e sussidi ad uso interno (cfr. ad esempio Teologia e mobilità umana in dialogo. Antologia Parte I e II).

Il Magistero pontificio è ricco di documenti concernenti la pastorale migratoria e si registra una evoluzione sul modo di concepire l'emigrazione e sulle proposte pastorali (cfr. Chiesa e mobilità umana. Documenti della Santa Sede dal 1883 al 1993. CSER, 1985).

Dopo il De Pastorali Migratorum Cura, non vi sono stati notevoli aggiornamenti pastorali in campo migratorio da parte dei Dicasteri romani, se non i canoni del Nuovo Diritto Canonico che non fanno che reiterare le posizioni acquisite.

Gli interventi del Papa per la giornata delle migrazioni o Pontificio Consiglio per la Mobilità Umana offrono spunti di riflessione e di approfondimento, ma non delineano nuove strategie pastorali. Accanto ad analisi sociologiche e politiche del fenomeno, si riscontrano spunti teologici preziosi per la nostra ricerca (cfr. ad esempio l'intervento del Vescovo Kurt Koch, Aufnahme des Fremden als ein Zeichen der Kultur: Von der Feindlichkeit zur Gastfreundlichkeit, in: Migration at the Threshold of the Third Millennium. Vatican, 1998, pp. 115-124).

Il progetto della storia delle Missioni non comporta tanto lo scrivere una storia della Missioni Cattoliche Italiane in Svizzera che si limiti alla stesura di un elenco di buone intenzioni e di buone opere. Si intende piuttosto al fare memoria di una realtà profondamente inserita nel contesto ecclesiale che evidenzi come le MCI siano parte viva di una chiesa e come la storia dell'impegno pastorale specifico e specializzato verso gli immigrati sottolinei la vocazione missionaria e cattolica del popolo di Dio.

Si intende affinare il significato di una presenza in un momento di particolare importanza per la chiesa e la società, divenute di fatto pluriculturali e plurietniche ed interpellate sempre di più da nuovi flussi migratori.

L'analisi storica della presenza delle MCI in Svizzera si rende poi necessaria in quanto sono ancora scarsi i segnali di accettazione di questa pastorale specializzata da parte della storiografia ecclesiastica svizzera e italiana. Vanno esaminati il cammino di inserimento degli immigrati nella chiesa locale, rivelandone difficoltà e successi, e l'evoluzione delle concezioni teologiche e delle scelte pastorali della chiesa di Dio in Svizzera verso un numero assai rilevante di fedeli di cultura non autoctona.

A proposito di storia delle MCI, esistono, oltre ai numerosi saggi sulle singole Missioni, altri testi base, come: Insieme oltre le frontiere. Momenti e figure dell'azione della Chiesa tra gli emigrati italiani nei secoli XIX e XX, di G. Rosoli (Salvatore Sciascia Editore, 1996); Emigrazione e diaspora. Chiesa e lavoratori italiani in Svizzera e in Germania fino alla prima guerra mondiale, di L. Trincia. (Edizioni Studium, 1997).

Evoluzione della pastorale migratoria

Prima di soffermarci su alcune linee biblico-teologiche fondanti, ripassiamo insieme velocemente e molto schematicamente alcuni momenti della storia della pastorale migratoria.

Prima fase

La storia della Chiesa primitiva rivela come la risoluzione dei primi conflitti culturali e la spinta ad accettare le culture "altre" costituiscono una dei tratti salienti della sua missione. La chiesa pratica l'accoglienza dello straniero, la filossenia, metro di giudizio fondamentale per la vita del singolo cristiano e della comunità.

 

Seconda fase

Nel Medioevo l'accoglienza e l'ospitalità continuano ad essere una caratteristica ed una prassi normale delle chiese in Europa. "Nil oratorio sine hospitio", decreta il Papa nell'anno Mille. La custodia dei ponti per facilitare il transito, la costruzione di ospizi ai valichi o di foresterie nei monasteri, i cimiteri per stranieri. Accanto alle cattedrali che ammantano l'Europa in quel periodo, si moltiplicano i centri di accoglienza. "Ianua patet sed magis cor" fa sì che, la di là dei tanti pericoli, ci si senta a casa ovunque.

Ma non è solo questione di centri di accoglienza. La pastorale è soprattutto attenta ai bisogno spirituali. Tutto questo viene codificato pastoralmente dal Concilio Laterano IV (1215) che decreta: "Poiché in molti luoghi si trovano frammiste nella medesima città e nella medesima diocesi popolazioni di diverse lingue, che professano la stessa fede ma con usi e riti diversi, ordiniamo severamente che i presuli di tali città o diocesi provvedano elementi idonei per celebrare i divini uffici secondo i diversi riti e idiomi, amministrare i sacramenti della Chiesa ed istruire adeguatamente questi nuclei con la parola e con l'esempio" (Concilio Lateranense IV, cap IX, MANSI, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio XXII, p. 998 (Venezia 1778).

Terza fase

L'accoglienza dello straniero passa in secondo piano. Guerre nazionali e di religione trasformano l'ospitalità in pulizia etnica.

La chiesa respira aria di nazionalismi invadenti e di identificazione stato-nazione (Gallicanesimo, chiese "nazionali"…).

Quarta fase: la chiesa senza i migranti

La rivoluzione industriale fa esplodere il fenomeno migratorio moderno cui le chiese devono dare delle risposte. Ma i migranti sono come un incidente di percorso, una emergenza da fronteggiare, ma niente di più. Ipotizzati come uccelli di passaggio o come persone che devono assimilarsi ai costumi del posto. Spesso si ha da fare con una chiesa minoritaria che vuole ad ogni costo essere accettata dalla società per cui non intende preservare costumi ed usanze che possano essere interpretati come contrari alle usanze del posto. Si riscontra una scarsa attenzione ai diritti religiosi.

Le pressioni da parte della base (laici) e da parte della Santa Sede portano alla creazione delle parrocchie nazionali in America del Nord (come già si usava a Roma ed in altre città in epoche precedenti), mentre per l'Europa l'emigrazione temporanea porta all'adozione, in ambito italiano, del modello inventato dall'Opera Bonomelli (con tutte le vicende che questa storia ha comportato).

I migranti sono oggetto di assistenza. Spesso nei confronti dei migranti italiani si nota una marcata italofobia. In America si parla nei circoli cattolici di "Questione italiana", oppure l'assistenza è vista come la longa manus della politica centralizzatrice della Santa Sede.
Si è condannati oppure ci si rifugia per autodifesa in un angolo. Ma si è comunque alla ricerca di una autonomia che rispetti la cultura di partenza. Non mancano le deviazioni (la nascita della chiesa cattolica nazionale polacca negli USA). Ad ogni modo, al di là delle colpe o delle inadempienze (chiese parallele), le parrocchie nazionali sono servite a mantenere la fede dei migranti in ambito "estraneo" e "di pericolo" e l'hanno trasmessa alle generazioni successive. La vitalità di tante chiese oggi è dovuta all'impegno pastorale di tante chiese nazionali.

Exsul Familia nel dopoguerra fa una sintesi e ufficializza questa visione e strategia pastorali.

Chiesa per i migranti

Si richiede una attenzione "diversa" poiché la temporaneità si trasforma molto spesso in permanenza.

I cristiani del luogo sono indotti ad essere solidali con i migranti, presentati come soggetti di diritto, da accettare come parte viva nella chiesa locale in nome della fede comune e dello stesso battesimo.

I missionari per i migranti fanno pressione presso le diocesi sostenendo di lavorare a servizio della chiesa locale.

L'impegno è rivolto alla salvaguardia e alla crescita della fede dei migranti, ma si tratta sempre di più di un ruolo che vuole essere profetico nella chiesa locale: una presenza da "estranei" che ricorda alla chiesa locale il cammino di integrazione, ma non di assimilazione: comunione nella diversità.

Si moltiplicano o si auspicano contatti e gesti di comunione.

Chiesa con i migranti

I migranti occupano spazi e gestiscono ruoli di responsabilità nella chiesa e nella società locale.

La scoperta delle radici e dei valori culturali che accomuna le varie generazioni va di par passo con l'impegno della società per un cammino di interculturalità e di convivenza pacifica e creativa. Ecco allora le battaglie comuni contro il razzismo o contro la disoccupazione; ecco l'impegno alla partecipazione a tutti i livelli.

Si registra la presenza di molti cattolici di lingua italiana in comitati ecc. Si celebrano le feste dei popoli, si collabora a progetti caritativi comuni.

Ma questo cammino di comunione in ambito pastorale, presente sempre di più nei documenti ufficiali, non sempre è fatto proprio da parroci, catechisti, commissioni ecc. che giudicano l'assistenza specifica e specializzata nei confronti del migrante come un pleonasmo, un relitto nostalgico, un attaccamento morboso a Roma o, meglio, uno spreco finanziario. Sono in tanti a sostenere per ragioni non teologiche ma finanziarie che è tempo di essere assimilati alla chiesa locale in tutto…Questo clima porta, d'altro canto, ad accentuare alcuni aspetti delle chiese locali che, almeno in apparenza, qua e là danno segni di svuotamento, di non incidenza sui valori della società, di non contatto con la gioventù, di irenismo e di paura di predicare il messaggio evangelico integrale; di chiese dominate da gruppi succubi alle mere leggi di mercato e da tendenze che privilegiano un progressivo allontanamento dalla "mentalità di Roma"…

Intanto si continua ad insistere su un ruolo innovativo delle MCI: no alle missioni ghetto, sì alle aperture, al dialogo, alla collaborazione; sì ad un cammino di riconciliazione e di comunione; sì alle unità pastorali come esempio di comunione ad intra e ad extra; sì alla cattolicità della chiesa capace di accettare e valorizzare ogni differenza.

Ecco il perché di incontri di formazione, dibattiti, programmazione pastorale che deve verificare se ogni nostra scelta pastorale è dettata dal principio di comunione e di cattolicità.

La difficoltà proviene dal fatto che tutto questo deve essere fatto in un momento in cui sono pochi, anche se estremamente preziosi, i segnali di ricambio generazionale: i giovani preti devono davvero assumersi responsabilità molto grandi ed aiutarci a traghettare le MCI verso nuove mete. Vi sono chiusure e ristrutturazioni da effettuare e qualche inevitabile difficoltà tra di noi. Ma non dobbiamo dimenticare il ruolo sempre più significativo che gli "anziani" (presbiteri) devono assumere nelle chiese europee! "Elisabetta nella sua vecchiaia ha concepito un figlio che tutti dicevano sterile. Nulla è impossibile a Dio".

Stiamo riflettendo e condividendo la nostra ansia apostolica e il nostro desiderio di rinnovamento con gli altri per ripartire.

Prendendo come spunto il movimento del migrante, ci rimettiamo nuovamente in cammino.

Fondamenti biblici e teologici

Dobbiamo metterci alla ricerca di basi bibliche e teologiche che diano significato pieno al nostro mandato pastorale e costituiscano la base comune di ricerca con tutti gli operatori della chiesa locale. Questa base deve determinare le nostre scelte, deve portare alla conversione nostra e loro, perché le migrazioni sono una sfida per tutti, per rinnovare il volto della chiesa.

Vi sono dei presupposti, quali:

· Noi siamo chiesa e facciamo parte a pieno titolo del progetto della chiesa locale
· I migranti non sono un oggetto transeunte da assistere, ma protagonisti, christifideles laici a pieno titolo
· La chiesa non deve subire o tollerare le differenze, ma deve favorirle ed incrementarle.

 

Il cammino da Babele a Pentecoste

Come primo spunto di riflessione, leggiamo i testi che riguardano Babele e Pentecoste (gli spunti sono presi dalle annotazioni del biblista Giacomo Tolfo).

Secondo l'interpretazione tradizionale, il miracolo della Pentecoste consiste nella restaurazione dell'unità perduta a Babele. Gli uomini, venuti dai quattro angoli della terra, capivano nella loro lingua i discorsi dei discepoli di Gesù. Perciò il racconto della torre di Babele e della confusione delle lingue costituisce la prima tavola del dittico, che evoca la trasformazione operata dalla venuta dello Spirito.


1. Torre di Babele (Gen 11,1-9)

Il racconto della torre di Babele, attribuito allo Jahvista, che ha composto la preistoria del popolo di Israele, si colloca al vertice di questa preistoria e si collega con la vocazione di Abramo (Gen 12,1-6), che con la sua fede si fa strumento di Dio, che interviene per ritessere la storia, finora storia di peccato. Con Abramo la storia ha una svolta, sono poste le radici di una nuova umanità. Abramo è fatto padre di un grande popolo e sarà fonte di benedizione per tutte le famiglie della terra (Gen 12,3).

2. Il significato del racconto

Il racconto, cosi come è presentato, fa riferimento ad un progetto di tutti gli uomini sparsi sulla terra di darsi una unità politica, sociale e religiosa. Fattore e simbolo di questa unità è la costruzione della città e della ziqqurat (torre a terrazze), simbolicamente trait-d'union tra cielo e terra. Il peccato dei costruttori, sempre secondo il racconto attuale, è un peccato d'orgoglio, quello di aver voluto costruire senza tener conto di Dio e addirittura contro il suo beneplacito (Gen 11,4.6).

3. Il castigo

È la confusione delle lingue, cioè la discordia e la confusione che hanno portato alla rottura della unità progettata e hanno fatto naufragare il piano dei costruttori. Tutto questo è attribuito ad un castigo di Dio, che interviene personalmente per far fallire il progetto degli uomini.

Il racconto e la sua interpretazione teologica vanno sottoposti ovviamente ad una rilettura.

4. La tavola dei popoli (Gen 10)

Anzitutto il c. 11 va confrontato con il c. 10, attribuito alla fonte P, dove della molteplicità delle lingue si dà tutt'altra interpretazione.

Dopo il diluvio Dio benedice l'umanità, la ricrea in Noè (alleanza noaica). Contro il concetto dell'impero di una nazione sull'altra, l'autore insegna che tutti i popoli, usciti da un'unica famiglia, devono liberamente spargersi sulla terra, raggrupparsi secondo le loro lingue e tribù e considerarsi fratelli. È questo il senso delle genealogie. È affermata, quindi, la unità e la uguaglianza di tutti i popoli nonostante la diversità di razza, di condizione sociale. La diversità delle lingue è considerata un fatto naturale e rientra nella benedizione di Dio, come la diffusione dei popoli sulla terra.

Questo documento, che presenta tutti i popoli, compreso Israele, alla pari, è di una imparzialità politica sorprendente (Von Rad).

Resta da spiegare l'aperta contraddizione con il c. 11. Qui sorprende il fatto che l'uomo cerchi l'unità e Dio ostacoli questo progetto, disperdendo gli uomini in una diversità spaziale e linguistica. Oltre al fatto che tale interpretazione cozza contro il c. 10, non è forse una costante del Vecchio e Nuovo Testamento la ricerca dell'unità, da Dio voluta e benedetta, realizzata finalmente da Cristo, morto per riunire i figli di Dio che erano dispersi (Gv 11,52)?

La diversità etnica e linguistica è davvero il risultato del peccato dell'uomo? È benedizione di Dio (c.10) o è castigo (c.1l)?

Proponiamo la seguente interpretazione.

Il progetto dell'uomo in realtà è quello di darsi unità e socialità. Ma la libertà umana è sempre ambigua. Da una parte costituisce la grandezza dell'uomo, dall'altra la sua miseria. Può costruirsi una città, garantirsi l'unità, la sicurezza. E questo è umano e in sé buono. Ma questo progetto può essere guidato da volontà di grandezza, di egoismo, di autosufficienza; e allora questo progetto cade sotto il giudizio di Dio, è contrario alla sua volontà. In altre parole la diversità come l'unità sono buone, secondo il progetto di Dio; ma siccome sono il progetto di un uomo sotto il peccato, le diversità diventano opposizioni e conflitti. Dire che la dispersione è castigo di Dio vuole semplicemente dire che la dispersione come viene realizzata, cioè come antagonismo, è contro la volontà di Dio, non è frutto della sua benedizione, ma del suo castigo; o, meglio detto, il peccato fruttifica dispersione, rompe l'unità. Altro non si vuol dire attribuendo al castigo di Dio la dispersione e la confusione delle lingue. Gli uomini fanno parte come membra di un corpo lacerato, per cui la volontà di Dio per l'unità nella diversità è trasformata nelle divisioni e conflitti tra i popoli che parlano lingue diverse.

La Pentecoste ristabilirà le cose, perché la diversità non è più antagonismo, ma concordia di molte voci che formano un solo coro.

5. Comunità unanime, concorde nella preghiera

Nell'attesa dello Spirito di Pentecoste, Luca presenta il piccolo gruppo della primissima comunità cristiana insieme nello stesso luogo (At 2,1). Lo Spirito, fattore di unità, presuppone l'unità, ovviamente suscitata da lui (Cfr. Mt 28, 19-20). Così la comunità, frutto della Pentecoste, sarà presentata nei Sommari come la moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuor solo ed un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune (At 4,32; 2,42; 5,12).

Il gruppetto, che attende in preghiera lo Spirito Santo, è costituito dai dodici, da alcune donne con Maria, madre di Gesù, e con i fratelli di lui (At 1,13-14). Questa composizione varia ha la sua importanza - al nuovo popolo di Dio possono appartenere tutti, perché il nuovo principio di aggregazione della nuova comunità è Cristo morto e risorto, datore di Spirito Santo.

6. Cominciarono a parlare in altre lingue (At 2,4)

Il testo sembra debba interpretarsi nel senso che gli Apostoli parlano in idiomi stranieri e gli uditori capiscono nella loro lingua (Dupont). Lo Spirito Santo non ha per effetto di far comprendere agli uditori ciò che gli apostoli dicono nella loro lingua, ma di rendere capaci gli apostoli di parlare ai presenti nelle loro lingue. A Babele avvenne la confusione delle lingue e non comprendevano più la lingua l'uno dell'altro (Gen 11,7). La Pentecoste può chiamarsi l'antibabele. Dio non restituì ai popoli la medesima lingua, ma concesse agli apostoli di parlare ai presenti nelle loro lingue.

L'insegnamento è chiaro. La Chiesa nella sua missione non deve parlare una lingua sola, e pretendere che tutti capiscano nella loro lingua, ma deve annunciare il Vangelo in diverse lingue quanti sono i popoli ai quali si rivolge. In altre parole la Chiesa deve inculturare il Vangelo. Deve riformulare il Vangelo sempre di nuovo per renderlo intelligibile agli uomini in conformità alle loro culture. La cattolicità della Chiesa comporta la universalità nella particolarità, la unità nella diversità.

L'unità è data dal trascendente, cioè la comunione alla vita trinitaria. La diversità è data dall'umano, dallo storico, dalle modalità differenziate con cui la medesima vita divina è vissuta dai singoli. Il primo polo non può raggiungersi se non attraverso la mediazione del secondo. È la legge della incarnazione. L'assunzione delle culture, dei linguaggi, delle etnie non è dettata da una strategia missionaria, ma si fonda su argomenti strettamente teologici. Per la natura dialogale della Rivelazione Dio non può comunicarsi prescindendo dal partner umano, così come egli è, nella sua irripetibilità; anzi l'accoglienza della parola in modo storico ed umano come risposta all'appello di Dio è parte costitutiva della rivelazione stessa. Paradossalmente non si può avere l'unità che nella diversità. (Cfr. 1 Cor 12 - il paragone del corpo e delle membra).

7. Lo Spirito Santo, principio di unità nella diversità

Siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo (1 Cor 12,13). Ora il corpo è uno nella diversità delle membra. L'immagine serve a Paolo per illustrare la funzione dei carismi nella comunità cristiana. I carismi sono dati a ciascuno, sono diversi, hanno una unica origine, lo Spirito Santo, e una finalità unica: l'unità della Chiesa.

Lo Spirito Santo è principio di unità, ma non di massificazione. La varietà dei carismi è data in base alle necessità della Chiesa, ma anche in base alle caratteristiche irriducibili di ogni persona umana.

Lo Spirito Santo ci unisce alla persona del Risorto, in modo da formare tutti in lui una cosa sola. Perché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c 'è più Giudeo né Greco, non c'è più né schiavo né libero, non c'è più uomo o donna. Poiché siete tutti uno in Cristo Gesù. (Gai 3,26-28).

Questa unità profonda non annulla le differenze, ma le relativizza radicalmente.

Anche Ef 2,11-22 ci presenta l'evento stupendo della unificazione in Cristo di popoli diversi, una volta lontani e divisi, ora invece in Cristo divenuti un popolo solo, un corpo solo, un solo uomo nuovo.

L'uomo nuovo è il corpo di Cristo. In lui sono riuniti, senza distinzione, giudei e pagani per vivere una vita nuova. Questo uomo nuovo forma un nuovo tipo di umanità, al di là delle vecchie distinzioni di razza, religione, cultura, classe sociale. L'insieme dei battezzati, inseriti nel corpo individuale di Cristo, costituiscono il corpo della Chiesa. Per Paolo quindi la Chiesa è un inizio, segno e strumento per la costituzione di una umanità nuova.

La Chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell'intima comunione con Dio e dell'unità del genere umano (LG 1,1).

Anche in Col 3,11 troviamo lo stesso insegnamento: qui non c'è più greco o giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti.

L'amore di Dio partecipato in Cristo per mezzo dello Spirito Santo è la fonte e il modello dei nuovi rapporti dell'umanità. Lo Spirito Santo è il principio di questa unità verticale e orizzontale (Ef 4,13).

Lo Spirito Santo, vincolo di amore del Padre e del Figlio, è un dono che ci raggiunge nel centro della persona (cuore), sede della libertà e della relazionalità. Il centro della persona è esattamente l'io, che costituzionalmente è rapportato ad un tu, all'altro. Ora se la relazione è guidata dallo Spirito, vincolo di amore tra Padre e Figlio, questi ci libera dalla logica egocentrica e ci conferisce la logica della oblatività e il risultato sarà l'accoglienza dell'altro nella sua alterità, la comunione dei molti e dei diversi.

La molteplicità delle lingue a Babele fu causa di dispersione. La molteplicità delle lingue a Pentecoste, per la presenza dello Spirito, fu causa di unità e di comunione. Tutti sentivano nella loro lingua, tutti capivano. Aggiungiamo, lo Spirito è causa di universalità.

La Pentecoste cristiana è la convocazione dei giudei e dei popoli in una comunità universale senza barriere o chiusure e questa comunità è la Chiesa. Luca si compiace di redigere la lista dei vari popoli presenti a Gerusalemme il giorno di Pentecoste e aggiunge: Giudei provenienti da ogni nazione Sotto il cielo (At 2,5). La sua intenzione è trasparente: Lo Spirito Santo, ricevuto a Pentecoste, invia gli Apostoli a tutte le nazioni del mondo (At 1,8). L'esecuzione di questo mandato non si presenterà facile. Gli Atti descrivono la progressiva apertura del Vangelo ai pagani, prima per opera degli Ellenisti, poi per opera di Pietro e soprattutto per opera di Paolo.

E da Gerusalemme partirà la missione universale della Chiesa. Mi sarete testimoni in Gerusalemme, in tutta la Giudea, la Samaria, fino all'estremità della terra (At 1,8). Il suo compito è quello di radunare tutti i dispersi figli di Dio, di creare sempre più, con la forza dello Spirito e con la sua testimonianza quello spazio umano, abitato dalla Trinità, che estende così nella storia i doni della comunione propria delle tre Persone divine (Vita Consecrata, 41).

Siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo (1 Cor 12,13).

Ora il corpo è uno nella diversità delle membra. L'immagine del corpo umano serve a Paolo per illustrare la funzione dei carismi nella comunità cristiana. I carismi sono dati a ciascuno, sono diversi, hanno una origine unica, lo Spirito Santo, e una finalità unica: l'unità della Chiesa. Lo Spirito Santo che è principio di unità nella Chiesa è paradossalmente principio di diversità, concedendo carismi e ministeri molteplici e diversi affinché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, con una crescita che tende alla pienezza di Cristo (Ef 4,13) (versione CEI riveduta).

Lo Spirito Santo è principio di unità, ma non di massificazione. La varietà dei carismi è data in base ai vari bisogni della Chiesa, ma anche in base alle caratteristiche irriducibili di ogni persona umana. Se la relazionalità è guidata dalla logica obblativa è fattore di comunione, ma nello stesso tempo accoglienza dell'altro nella sua alterità.

E cominciarono a parlare in altre lingue (At 2,14).

Il testo sembra doversi intendere nel senso che lo Spirito Santo rende capaci gli apostoli di parlare ai presenti nelle loro lingue. La conclusione è chiara: la Chiesa deve parlare tutte le lingue, annunciare il Vangelo in diverse lingue quanti sono i popoli ai quali si rivolge.

La cattolicità della Chiesa comporta universalità nella particolarità. L'unità e l'universalità è data dal trascendente, dalla comunione alla vita trinitaria, la diversità è data dall'umano, dallo storico, dalle modalità differenziate con cui la medesima vita viene vissuta dai singoli.

Il primo polo non può raggiungersi se non attraverso la mediazione del secondo. È la legge della incarnazione. La assunzione dei linguaggi, delle etnie, non è dettata da una strategia missionaria, ma si fonda su argomenti strettamente teologici. Per la natura dialogale della Rivelazione, Dio non può comunicarsi prescindendo dal partner umano, cosi come egli è. Anzi l'accoglienza della parola in modo storico e umano, come risposta all'appello di Dio, è costitutiva della Rivelazione stessa. Paradossalmente si può dire che l'unità non si può avere che nella diversità. Ecco perché lo Spirito Santo è principio nello stesso tempo di unità e diversità.

I cieli nuovi e la terra nuova

Pietro esprime la speranza cristiana in questi termini: noi aspettiamo nuovi cieli e terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia (2 Pt 3,13). È questo rinnovamento radicale della storia nella sua fase escatologica che l'Apocalisse ci presenta in un affresco grandioso nei capitoli 19-22. Anzi, più che di rinnovamento si dovrebbe parlare di "ricreazione", perché il cielo e la terra di prima sono scomparsi (21, 1.4). Ecco io faccio nuove tutte le cose (21,5).

L'Apocalisse, dopo aver descritto la distruzione del male (17-18), presenta le meraviglie di un mondo totalmente e radicalmente rinnovato (21,1), ecco le nozze dell'Agnello e della Sposa - Chiesa (19,18). Questa finalmente può amare Cristo di amore paritetico, proprio degli sposi. Ecco la città santa, la nuova Gerusalemme, Città-Popolo di Dio, risplendente della gloria di Dio, con le porte spalancate di giorno e di notte (22,25), perché vi possano affluire tutti i credenti da ogni direzione e senza bisogno ormai del tempio, perché le mediazioni sono ormai eliminate in favore di una comunione immediata con Dio.

Noi non sappiamo il tempo e il modo con cui sarà trasformato l'universo (Gaudium et Spes, 39). Quello che è certo è che noi siamo in viaggio verso di esso, anzi questa realtà è già presente. Cristo ha introdotto nella storia gli ultimi tempi. Egli è 1' "eschatos", la sua opera l'"efapax" (una volta per sempre), eternizzata nel suo stato di risorto. Ma questa irrepetibilità deve attualizzarsi e moltiplicarsi per gli uomini, collocati nell'arco della storia e in modo progressivo, come è proprio della storia, che ha un inizio, uno sviluppo, un compimento.

Nel tempo del "frattempo", lo Spirito ci spinge in avanti verso la progressiva assimilazione all'immagine del Figlio di Dio. E noi, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati di gloria in gloria secondo l'azione dello Spirito del Signore (2 Cor 3,18) fino al momento in cui il Signore trasfigurerà il nostro misero corpo, per conformarlo al suo corpo glorioso (Fil 3,21). Ma la sproporzione tra ciò che siamo e ciò che saremo, la inadeguatezza del nostro sperare rispetto all'oggetto della nostra speranza ci pone in uno stato di tensione che S. Paolo chiama "gemito". Anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente, aspettando l'adozione a figli; la redenzione del nostro corpo (Rm 8,23). E con noi tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto (Rm 8,22). E come terzo anche lo Spirito intercede per noi con gemiti inesprimibili (Rm 8,26).

In questa tensione tra il già e il non ancora lo Spirito si unisce alla nostra invocazione, suscita in noi il desiderio struggente dell'incontro definitivo sponsale. Lo Spirito e la Sposa dicono: vieni... oh sì, vieni Signore Gesù (22,17.20). Il "Maranathà" è il grido dello Spirito, fatto suo dalla comunità cristiana. Ma si tratta pur sempre di un incontro in cui permane la diversità, è anzi glorificata: "Apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e all'Agnello, avvolti in vesti candide…" (Ap. 7, 9).

Conclusione

Si è voluto dare un esempio di come si debba basare su spunti biblico-teologici la pastorale migratoria che serve a ricordare alla chiesa il dovere del rispetto e l'impegno a favorire la comunione nella diversità. Lo Spirito di Pentecoste esige questo, rendendo la chiesa cattolica. È questo il cammino, l'inizio del nuovo Regno, la nuova creazione nello Spirito.

Cattolicità vera significa, quindi, ospitare la diversità, fare festa attorno ad essa, convivere e creare unità con essa. Accoglienza è intimamente legata al cammino di cattolicità della chiesa: una parola chiave attorno cui si evolve gran parte del Primo e Secondo Testamento. Kurt Koch, nel suo intervento al IV Congresso Mondiale per la cura pastorale dei migranti e dei rifugiati, ha affermato: "La parrocchia è costitutivamente un luogo dell'ospitalità e della solidarietà. O è una chiesa ospitale oppure non è veramente una chiesa cattolica" (Cfr. Atti del Convegno, pp. 115 -124).

La Parola diventa provocazione per tutti noi, sacerdoti italiani e svizzeri, religiosi, collaboratori. Essa ci interpella tutti. È lo Spirito che ci spinge a convertirci tutti perché la Sposa di Cristo sia davvero come Dio la vuole, e non come noi la vogliamo.

Noi, perché cattolici, non possiamo credere nell'annullamento della diversità. Noi tentiamo, nel nostro piccolo, di imitare il Dio Trinità che è comunione piena nella diversità più assoluta: il Dio Trinità che "chiama ciascuno di noi per nome"! La nostra è un'agenda dettata non dalla paura dell'altro, ma dall'amore.

La nostra pianificazione pastorale, all'interno del progetto della chiesa locale, è mossa da queste visioni?

G.G. Tassello
CSERPE - Basilea