L'Europa e gli altri


  L'identità di una cultura è inseparabile dal suo rapporto con le altre culture. Più una cultura è forte e più è "in relazione". La relazione è sempre un'avventura: di scoperte, di alleanze e di conflitti. Ripercorrere alcune tappe della relazione che l'Europa ha avuto in questo secolo con gli altri è anche evocare drammi che non possiamo dimenticare e responsabilità che sono ancora nostre.

 L’Europa

& gli "altri"

Nell'elenco delle vittime e dei genocidi del nostro secolo, che non citiamo, ci sono:
Namibia 1904:

l'ottanta per cento degli Herero morti dopo la deportazione nel deserto decisa dall'esercito tedesco.
Armenia 1915:
il governo turco deportò in Siria due milioni di Armeni metà dei quali morirono durante la deportazione.
Ucraina 1932-33:
sei milioni di contadini morirono fucilati o per la carestia provocata da Stalin.
Vietnam 1964-1973:
grazie ai bombardamenti con i defoglianti morirono quattro milioni di Vietnamiti.
Cambogia 1975-79:
durante la dittatura dei Khmer rossi oltre un milione di persone vennero uccise.
Ruanda 1994:
in tre mesi gli estremisti Hutu uccisero quasi un milione di persone.
.... e tutti quegli sconosciuti della nostra storia, schiacciati nel silenzio, cui dedichiamo queste righe in memoria.
 Se l'Europa come progetto politico-economico consapevolmente voluto dai singoli Stati nazionali nasce solo nel corso del XX secolo, l'Europa nella sua compressa e mai del tutto definibile identità culturale si viene costituendo nel corso dei lunghi secoli precedenti. In un continuo difficile rapporto con altri popoli e altre civiltà. In se stessa crogiolo di culture, mondo di relazioni, incessante luogo di scambi, l'Europa si è continuamente protesa, con soldati e mercanti, missionari ed esploratori, verso gli altri. Sicché, se le sue radici più proprie affondano nella cultura greca e in quella ebraico-cristiana, l'Europa, di volta in volta e come ha saputo, si è aperta ad apporti e contaminazioni di altre culture, prima fra tutte quella araba. Se l'Europa dunque non è mai stata una realtà chiusa su se stessa o priva di contatti significativi con altri popoli, non è però trascurabile il fatto che la modernità europea sembra nascere all'insegna di un rapporto con l'altro caratterizzato dalla paura, dal misconoscimento e dall'esclusione più che dall'accoglienza e dall'incontro. La data simbolica della fine del Medioevo e dell'inizio della modernità, il 1492, è in questo senso particolarmente significativa: "conquista" dell'America e strage degli Indios, riconquista di Granada con espulsione degli Arabi dall'Europa dopo otto secoli di presenza, espulsione degli Ebrei dapprima dalla penisola iberica e successivamente dagli altri Stati europei occidentali. L'Europa è come presa da volontà di dominio e da ansia di purezza. Pare incapace di un rapporto con la diversità fatto di dialogo paziente e rispettoso. Forse abbagliata dalla propria forza. Forse impreparata a tanta diversità. Forse prigioniera di un pensiero insulare e intransitivo. Certo presa da un moto di intolleranza analogo a quello scatenatosi in quegli stessi anni contro le streghe.
La storia dell'Europa del XX secolo può essere riletta in modo significativo proprio in quest'ottica. Focalizzando cioè l'attenzione su alcuni avvenimenti capaci di svelare il modo in cui sono state concepite e si sono date le relazioni tra la civiltà europea e i mondi, i popoli, le culture altre.
Imperialismo e decolonizzazione;
" l'altro" fuori d'Europa

1914: la spartizione dell'Africa si è ormai definita nel modo seguente: la Francia controlla Marocco, Algeria, Gabon, Madagascar, parte della Somalia e l'Africa Occidentale Francese; la Gran Bretagna controlla Gambia, Sierra Leone, Costa d'Oro, Nigeria, Egitto, Sudan, parte della Somalia, Uganda, Kenya, Rhodesia, Beciuana e Sud Africa; il Portogallo controlla, oltre ad alcune isole, Angola e Mozambico; la Germania, Togo, Camerun, Africa del Sud-Ovest e Africa Orientale; il Belgio controlla il Congo; l'Italia ottiene Libia, Eritrea e Somalia.
1926: una Conferenza imperiale avvia la trasformazione dell'impero britannico in Commonwealth e già prima della seconda guerra mondiale alcuni paesi ottengono l'indipendenza: Sud Africa ('34), Egitto ('36), Iraq ('37).
1945: l'atto costitutivo delle Nazioni Unite annuncia la "decolonizzazione" come base di un mondo futuro retto da rapporti pacifici e paritari tra le nazioni. Nascita dell'ONU e del Fondo Monetario Internazionale. Fondazione della Banca Mondiale.
1947: indipendenza dell'India.
1955: la Conferenza Afro-Asiatica di Bandung in Indonesia, radunando ben 29 Stati, segna l'atto di nascita dei paesi "non allineati".
1960: "Anno dell'Africa": ottengono l'indipendenza ben 17 Stati africani.
1961: viene fondato l'OECD
(Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), ampliamento del commercio mondiale e coordinamento degli aiuti ai Paesi in via di sviluppo
1963: fondazione dell'Organizzazione per l'Unità Africana con una commissione per risolvere i contrasti interni e un Comitato di liberazione per i territori non ancora indipendenti. Linea estremista contro la quale sorgerà nel 1965 l'Organizzazione Comune Africana e Malgascia.
1975: dopo lunga lotta contro il dominio portoghese, gli ultimi paesi ad ottenere l'indipendenza sono Angola e Mozambico.

 Nel XX secolo, l'Europa conosce sia il culmine della sua politica imperialista che un lento, e certo ambiguo, cedere al principio dell'autodeterminazione dei popoli. All'inizio del secolo, le relazioni dell'Europa con le civiltà latino-americane, ma soprattutto asiatiche ed africane sono ancora fortemente segnate da logiche di dominio e di sfruttamento. Gli Stati europei, presi da incontenibile febbre imperialista, di volta in volta prendono possesso di territori, s'accaparrano materie prime, cercano il controllo di mercati o di posizioni strategiche. Un misto di nazionalismo, di razzismo e di spirito missionario sembra pervaderli. I sentimenti nei confronti degli "altri" sono per lo più di ostilità e di superiorità. Sembra che il confronto con la diversità non possa che sfociare in una gerarchizzazione: un più e un meno, un meglio e un peggio, un civilizzato e un "selvaggio", da redimere o da sfruttare.
A scardinare questo violento quadro di rapporti e ad avviare il sofferto processo di decolonizzazione è il significativo intrecciarsi di due grandi mutamenti culturali. Da un lato, i nuovi quadri dirigenti indigeni, formatisi agli ideali democratici e ai principi di nazionalità nelle scuole europee ed ormai esasperati dalla durezza delle politiche coloniali, lavorano per promuovere la formazione o il risveglio di nazionalismi locali. In un certo senso, l'Europa ha esportato proprio ciò che meno ha progettato: il bisogno di autogovernarsi e di decidere del proprio destino. Dall'altro lato, soprattutto a causa della sua incommensurabile carica distruttiva, la seconda guerra mondiale avvia in Europa un rapido processo di superamento dei nazionalismi e di presa di coscienza della necessità di una solidarietà umana più ampia. E non è certo casuale o irrilevante che l'atto costitutivo delle Nazioni Unite annunci proprio la decolonizzazione come base di un mondo futuro retto da rapporti pacifici e paritari tra le nazioni.
L'eredità che l'Europa lascia, soprattutto alle civiltà con strutture politico-sociali meno organizzate e con tradizioni religiose meno solide, è però pesantissima. Scomparsa di interi sistemi di vita, di riti e di credenze, di costumi e di valori. Attitudine alla sottomissione, intrinseca fragilità delle organizzazioni statuali, incapacità alla vita democratica e grave debolezza economica. Eredità di fragilità e impoverimento di cui l'Occidente, proprio mentre s'incammina verso prospettive di politica mondiale e proprio mentre promulga un testo come la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, finisce con l'approfittare.
L'infiltrazione economico-finanziaria dei paesi ricchi nella vita politica ed economica dei paesi del Sud del mondo si fa presto potente e pervasiva. L'appoggio ai regimi dittatoriali è spesso velato, ma reale. Le dipendenze sono rinnovate e più subdole. Come risulta facilmente leggibile anche solo osservando che i processi di determinazione dei prezzi delle materie prime rimangono in mano all'Occidente: la forza delle multinazionali s'accresce fino a divenire tale da vincolare le politiche nazionali e da alimentare divisioni tra gli Stati poveri; i cosiddetti aiuti al Sud del mondo, che siano dei singoli Stati del Nord o di enti sovranazionali, come la Banca Mondiale o come il Fondo Monetario Internazionale, finiscono con il non rispondere che raramente alle esigenze reali delle popolazioni locali e, comunque, strozzano i paesi debitori obbligandoli a politiche restrittive che danneggiano la popolazione e vincolandoli ad una improbabile restituzione con interessi. Il crescente divario economico tra paesi ricchi e paesi poveri, con la sua intrinseca tragica violenza, dovrà senza dubbio e rapidamente divenire uno dei più rilevanti moniti per un'Europa che voglia reimpostare radicalmente le proprie relazioni con gli altri popoli in una logica di reciprocità e di responsabilità fattiva.

Il genocidio degli Ebrei: l'altro nel cuore d'Europa


30 gennaio 1933:
Hitler nominato cancelliere.
marzo 1933:
creazione del primo lager destinato a dissidente politici: Dachau.


2 agosto 1934:
Hitler assume la carica di capo di Stato.
15 settembre 1935:
leggi di Norimberga: i diritti politici spettano solo ai cittadini di sangue tedesco.


luglio 1937:
creazione del campo di concentramento di Buchenwald.


9 novembre 1938:
notte dei cristalli (incendiate 119 sinagoghe e saccheggiati 7500 negozi di Ebrei; 26000 Ebrei deportati nei lager).


1 settembre 1939:
invasione della Polonia e inizio della guerra. Decreto sulla necessità di sopprimere le vite non degne d'essere vissute.


20 gennaio 1942:
Conferenza di Wannsee: elaborazione del piano di eliminazione della "razza inferiore".


marzo 1942:
la burocrazia nazista inizia a parlare di "soluzione finale del problema ebraico". Gli Ebrei europei uccisi nei lager nazisti di Auschwitz, Belzec, Chelmno, Sobibor e Treblinka saranno circa sei milioni.

 Lo sterminio degli Ebrei è indubbiamente il lato più oscuro della storia del nostro secolo. Il lato senza riconsiderare il quale la nostra storia non può procedere oltre come storia umana e in riferimento al quale la civiltà europea deve ripensare e rifondare se stessa. Auschwitz è il "buco nero' che si è aperto nel ventre dell'Europa risucchiando via migliaia di volti e di storie, un intero popolo con il suo patrimonio di cultura e di fede. Auschwitz è la tragedia dell'annientamento stesso dell'uomo nella sua umanità. E la tragedia risulta, se è possibile, ancora più assurda, qualora si pensi a come la cultura europea si sia ampiamente nutrita dell'apporto del pensiero ebraico e come proprio in questa religione affondi le sue radici il cristianesimo.
La domanda sulle ragioni profonde che hanno condotto la civiltà europea a cercare l'annientamento del popolo ebraico e a organizzare lo sterminio sistematico non sarà mai scandagliata a sufficienza. Probabilmente tali ragioni sono da cercare ad un tempo nel modo in cui si sono costruiti storicamente i rapporti dell'Europa con questa anomala minoranza e in alcuni tratti specifici della cultura occidentale, per come si è venuta definendo negli ultimi cinque secoli.
Per quanto riguarda la prima pista, può forse essere sufficiente segnalare come il rapporto dell'Europa con gli Ebrei non sia mai stato sereno. I pregiudizi sfruttati dalla propagande nazista nascono già nei primi secoli dopo Cristo e nel Medioevo. La caduta di Gerusalemme ('70 d.C.) è il castigo meritato da un popolo deicida. Gli Ebrei sono degli strozzini, non fa nulla se non fanno altro che accettare, loro malgrado e in un'epoca in cui il "credito bancario" è ormai irrinunciabile, di effettuare prestiti a pegno per ottenere in cambio il permesso di residenza. Minoranza anomala, disseminata su tutto il continente europeo, ma troppo fortemente identificata, già nel Medioevo viene discriminata, non può godere di diritti fondamentali come quello alla terra, non può svolgere determinate attività professionali, viene improvvisamente cacciata dai territori in cui risiede, è aspramente perseguitata. Annidata in seno ad una civiltà che, a partire dall'epoca dei lumi, pone al centro l'individuo riconoscendolo come portatore di fondamentale diritti, ma non riconoscendogli diritto alcuno in quanto appartenente ad una minoranza, finisce, ad Ovest, per subire le logiche assimilazioniste dell'uguaglianza tra tutti gli uomini e, ad Est, per rafforzare il senso d'appartenenza ad una minoranza nazionale più che religiosa. Sicché, quando nella seconda metà del XIX secolo, in Europa, i movimenti nazionalisti guadagnano terreno, gli Ebrei si trovano ad essere ovunque un problema aperto: la minoranza ebraica non solo non è totalmente assimilata, ma non è neppure facilmente definibile come minoranza religiosa piuttosto che razziale o nazionale. I pregiudizi nei confronti degli Ebrei, tramandatisi nei secoli, sono ancora a disposizione, pronti per essere usati per eliminare alla radice il problema.
La seconda pista di riflessione si ricollega proprio qui. La scelta di eliminare l'altro con la sua problematica alterità e di preservare ad ogni costo la purezza della propria razza sono perseguite dai nazisti con determinazione e successo.
In pochi scelgono di vedere la tragedia e di non tacere. Di opporsi. L'Europa è per lo più complice. Di più, proprio nella cultura europea, con il suo moderno mito della purezza e con la sua sete di dominio, si annidano i germi della tragedia. La radice profonda di questa scelta di morte sta probabilmente proprio nella forza di una ragione scientifica e strumentale che conosce per sottomettere e ridurre a sé. Che è volontà di controllo assoluto, che è ansia di onnipotenza, tentativo di far regnare l'identico riconducendo l'alterità ad unità. In quest'ottica, allora, Auschwitz ha da essere il luogo a partire dal quale rifondare la modernità occidentale. Nel suo costruire la propria identità in un confronto con alterità troppo spesso non rispettate nella loro inquietante differenza e violentemente assimilate o eliminate. Nel suo lasciare libero corso ad una ragione strumentale e dominatrice che, certo da un lato ha ottenuto incredibili successi nell'organizzare la vita dell'uomo, ma dall'altro lato, ogni volta che porta avanti in maniera esclusiva la sua logica e non viene limitata, finisce con l'uccidere l'uomo.
La guerra in Bosnia: rinascita delle violenze nazionaliste
1945: nasce la Repubblica popolare e federativa di Jugoslavia.
1980: morte di Tito.
28 giugno 1989: Milosevic lancia il suo programma nazionalista e diviene presidente della Serbia.
25 giugno 1990: Slovenia e Croazia si dichiarano indipendenti.
29 marzo 1992: referendum per l'indipendenza in Bosnia.
1 aprile 1992: inizio dell'assedio di Sarajevo da parte dei Serbi.
6 aprile 1992: i Dodici riconoscono la Bosnia-Erzegovina. La prima vittima dei cecchini serbi è una studentessa: Suada Dilberovic.
27 aprile 1992: viene proclamata a Belgrado la nuova Federazione Jugoslava (Serbia e Montenegro).
22 maggio 1992: Slovenia, Croazia e Bosnia-Erzegovina entrano a far parte delle Nazioni Unite.
2 agosto 1992:
la stampa americana denuncia l'esistenza di campi di concentramento serbi.
22 settembre 1992: l'Assemblea generale delle Nazioni Unite vota l'espulsione della Jugoslavia. La Federazione serbo-montenegrina, se vorrà far parte dell'ONU, dovrà inoltrare un'altra domanda.
8 gennaio 1993:
uccisione del vicepremier bosniaco Turajic.
30 luglio 1994: sanzioni economiche alla Serbia.
1 dicembre 1995: a Sarajevo è il giorno 1000 dall'inizio dell'assedio.
luglio 1995: i Serbi conquistano le aree protette di Sebrenica e Zepa: 'pulizie etniche' e deportazioni.
20 dicembre 1995: a Dayton (Ohio, USA) vengono firmati gli accordi di pace.
24 marzo 1999, mercoledi notte. La Nato inizia i bombardamenti su Belgrado e sulla Jugoslavia di Milosevic. Inizia la 'Pulizia etnica' nel Kosovo. 150.000 kosovari albanesi si ammassano oltre i confini, mettendo in grave difficoltà le nazioni limitrofe: Albania e Macedonia.
 Il crollo dei regimi comunisti ha modificato radicalmente il panorama politico mondiale. L'Europa si è trovata a fare i conti con la fine dell'ideologia comunista, con il disgregarsi delle forme statuali dei paesi dell'Est, con il prevedibile quanto inatteso desiderio di benessere di grandi masse, con il rinascere di pericolosi nazionalismi. La guerra di Bosnia, scoppiata nel cuore stesso del continente europeo, ha svelato ancora una volta nodi e contraddizioni non risolte della civiltà europea. Il passato non sembra voler passare. E il principio guida della storia europea fino all'ultima guerra mondiale, secondo cui ogni nazione ha diritto ad avere un suo Stato principio che si era tragicamente rivelato carico anche di limiti e di violenze da cui la fondazione dell'ONU e l'idea di un'Europa Unita avevano inteso mettere al riparo l'umanità in realtà è riapparso con tutta la sua carica di morte. I cittadini dell'Est, privi di abitudine all'attivazione personale e privati di un riferimento ideologico coesivo, hanno finito con l'accettare spesso letture semplificate della realtà che attribuiscono le cause dello sfacelo a passate prevaricazioni sulla loro nazionalità e che individuano il responsabile dei loro problemi in un nemico esterno, in un'altra nazionalità. Dall'altro lato i paesi dell'Occidente, sentendosi minacciati dall'apparire di questi fratelli d'oltre muro, han reagito con fenomeni di chiusura soggettivistica e di recupero dei valori della stirpe finalizzati solo al mantenimento delle proprie posizioni di privilegio.
Nella guerra di Bosnia, l'Europa si è scontrata di nuovo con il tragico epilogo di queste chiusure prepotenti e asfittiche: la 'pulizia etnica', il genocidio. Cioè con la reazione aggressiva fino all'estremo dinanzi ad un altro sentito come minaccioso per il suo essere portatore di memorie, valori, tradizioni differenti. Con l'incapacità di coltivare la via lunga del dialogo, della progettualità coraggiosa e condivisa, della rivitalizzazione delle organizzazioni statali. Lo scontro con la violenza del popolo serbo ha visto l'Europa paralizzata. Inabile a gestire situazioni di ricucitura del dialogo tra popoli che abitano Io stesso territorio. L' Onu e i paesi europei si sono come piegati alla logica della forza e della spartizione del territorio su base etnica e, in nome dei loro interessi diretti nella zona balcanica, hanno rinunciato a sostenere i valori plurinazionali, gli ideali della pluralità culturale e del cosmopolitismo. Senza forse rendersi ben conto che così lasciavano andare alla deriva gli stessi valori democratici. Il bilancio è triste. Non solo per il numero di morti e di profughi. Anche perché chiede con estrema urgenza ai singoli Stati d'Europa una conversione: non è possibile condurre simultaneamente una politica nazionale, in funzione dei propri interessi, e una politica sovranazionale, nel quadro dell'Onu. Il bilancio è triste anche perché evidenzia quanto l'Occidente debba ancora lavorare per passare da una cultura monologica ad una cultura dialogica. Da una cultura della impaurita giustapposizione dei diversi ad una cultura della "cittadinanza planetaria". E, in questo senso, proprio la Bosnia multietnica di prima della guerra aveva molto da insegnare.
Le migrazioni la grande chance dell'incontro
1900-20:
consistente migrazione degli europei (Italiani in prima fila) oltre oceano; verso gli Stati Uniti e verso alcuni Stati latino-americani, come Brasile e Argentina.
1921:
gli Usa chiudono le frontiere e rallentano il fenomeno immigratorio.
1929:
la grande crisi economica dovuta al crollo della Borsa di Wall Street contribuisce anch'essa a rallentare le migrazioni oltre oceano.
1939-45:
a causa della guerra, avvengono enormi spostamenti di popoli. Basti pensare alla fuga degli Ebrei o alla fuga della popolazione verso Ovest durante l'avanzata sovietica.
1945-48:
si stima che 18 milioni di persone si siano spostate, parte perché espulse dai loro Stati, parte perché rifugiatesi all'estero, parte per scambi e parte per lavoro.
1950-70:
dall'Europa mediterranea avvengono consistenti migrazioni verso l'Europa nord-occidentale in cerca di lavoro. Iniziano anche le migrazioni dai paesi del Sud del mondo verso l'Europa (prima verso Francia, Belgio, Germania e Svizzera, poi verso Gran Bretagna e Olanda).
Anni Settanta:
più di un milione di nordafricani arriva in Francia, un milione di immigrati dai Commonwealth si trova in Gran Bretagna, mezzo milione di Turchi in Germania Federale.
Anni Ottanta:
in Europa, sempre di più i posti di lavoro occupati in precedenza da Portoghesi, Spagnoli, Italiani viene preso da immigrati di provenienza extraeuropea, soprattutto da nordafricani, africani delle zone sud-sahariane, asiatici ed euroorientali. Anche i paesi dell'Europa mediterranea diventano paesi d'immigrazione.
Anni Novanta:
si stima che nel mondo circa 18 milioni di persone vivano al di fuori del loro Stato di nascita. Con il crollo dei comunismi, inizia l'immigrazione dall'Europa Orientale. Nell'Europa Occidentale arrivano i profughi della guerra bosniaca.
1997:
i titolari di permesso di soggiorno in Italia sono per la prima volta poco più di un milione.
 Il XX secolo è stato più di altri un secolo di grandi spostamenti di persone e di popoli. Di rapidi rimescolamenti di civiltà e di sorprendenti fecondazioni di culture. Ma anche e inevitabilmente di tensioni e conflittualità, di negazioni e chiusure. L'Europa si è trovata al centro di questi sommovimenti. Li ha vissuti con un'intensità notevole. Nel suo lanciarsi (e l'Italia in questo senso è la madre di tutte le emigrazioni) verso i paesi d'oltreoceano alla ricerca di ricchezza e felicità. Sul suo stesso territorio: nello spostarsi dei popoli europei, costretti a lasciare le proprie terre per guerra o oppressione politica, ma anche nel recente divenire meta di speranze e progetti di immigrati del Sud del mondo. L'Europa ha, di volta in volta, affrontato le differenti situazioni: accompagnando i suoi emigranti (partenze e rientri, progetti migratori e fallimenti, inserimenti lavorativi e integrazioni sociali, distacchi affettivi, ricongiungimenti familiari e nostalgie) e rendendosi, in varie forme, interlocutrice degli Stati di destinazione; organizzando politiche, magari sovranazionali, per rifugiati politici e profughi di guerra; regolamentando gli ingressi degli immigrati, gestendo le politiche di integrazione, affrontando i problemi di convivenza tra culture diverse. Lo ha fatto come ha potuto: con slancio o con fatica, con lucidità e coraggio o con paura. Ma dentro tutti questi processi politici e civili lo ha fatto esprimendo e scegliendo se stessa. La propria identità e la propria vocazione.
Oggi, senza dubbio, l'Europa si trova di fronte a responsabilità grandi. L'incredibile spinta economica dei paesi capitalisti, la straordinaria crescita demografica del Sud del mondo, il rapidissimo sviluppo delle comunicazioni stanno determinando una svolta epocale. Da un lato, l'Europa si trova a dover raccogliere una sfida, forse ancora utopica e certo impegnativa per i cambiamenti a lungo termine che richiede, che è ad un tempo di giustizia e di custodia delle culture. Si tratta di lavorare per restituire alla politica il potere di dominare le logiche dell'economia. Per ridistribuire le ricchezze. Per far sì che le culture, con i loro bagagli di significati, di tradizioni e valori, non vengano cancellate dai poteri omologanti e massificanti del mercato e delle telecomunicazioni. Dall'altro lato, in questo stesso quadro, per l'Europa è racchiusa anche la grande chance da non perdere: quella dell'incontro fecondo delle differenze.
L'Europa sta diventando multietnica. Alle sue porte giungono a bussare innumerevoli persone che provengono da paesi economicamente poveri o da paesi in guerra. Giungono con un loro progetto migratorio, come attratti dal benessere che l'Europa fa luccicare tramite Tv sotto il loro naso. Giungono come scaraventati qui da un vortice inatteso di violenza o aggrappati su scialuppe, loro ultima àncora di salvezza. Sempre più spesso si fermano. Con il loro bagaglio di sofferenze, di nostalgie, di rabbia, di speranze. Con il loro originale modo di guardare il mondo e di leggerne i significati. Cercano lavoro, casa, integrazione. Non sempre trovano accoglienza e sostegno. Qui sta la chance che l'Europa non può non cogliere. Abbandonare le logiche dell'irrigidimento e dell'arroccamento in difesa del proprio benessere. Promuovere le logiche dell'ospitalità e del dialogo. Accettare la propria vocazione ad essere ancora una volta crogiuolo di culture. Lavorare perché la presenza su uno stesso territorio di persone appartenenti a culture diverse possa avere forza sorgiva. Avviare nuovi processi storici e creare nuovi mondi di significato nelle faticose ed entusiasmanti piazze dell'interculturalità.
Dentro questa chance ce n'è anche una più specifica. Molti degli immigrati che stanno giungendo in Europa sono di religione musulmana. Se non si considera la straordinaria, ma molto particolare esperienza della Bosnia prima della guerra, per la prima volta, dopo quasi cinque secoli, musulmani e cristiani stanno ricominciando a vivere, su territorio europeo, un contatto fatto di quotidianità in un
contesto ormai secolarizzato. Dentro il mondo in cui si sono affermate le democrazie e si sono promulgati i codici dei diritti universali degli uomini.
L'Europa Unita si trova così a dover gestire un delicato incontro su cui gravano una pesante storia di ostilità e una serie di pregiudizi reciproci. L'Europa ha da poco espulso gli Ebrei rifiutando loro ogni spazio. I musulmani ora ne rivendicano. Chiedono possibilità di vivere la loro fede. Avanzano proposte di concordati (in Italia per esempio) per insegnare l'islam nelle scuole. Fanno riferimento a sfondi culturali in cui non vi è separazione tra fede e politica. Sicché, con loro l'Europa non si trova a gestire soltanto il rapporto con una cultura diversa, bensi quello con una differenza che va a mettere in questione la stessa scelta di laicità dello Stato. Si tratta di una differenza che sta obbligando le democrazie europee a riconsiderare il problema religioso come problema imprescindibile del dibattito politico e a riconoscere importanza e pertinenza alle dimensions pubbliche e sociali di ogni scelta di fede. Il cammino è faticoso ed estremamente complesso, ma la chance che questo inizio di millennio offre all'Europa è grande.

 

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