Pastorale migratoria in Svizzera


Pastorale migratoria in Svizzera, oggi
"Possibili sbocchi della nostra presenza missionaria"
Berna 16 marzo 1999 - Zurigo 17 marzo 1999
relazione tenuta da: Giovanni Graziano Tassello, c.s.
Cserpe - Rütimeyerstrasse 16 - 4054 Basel

(note per una riflessione sul tema)

Introduzione

Come tutti i missionari, cerchiamo di coltivare lo spirito di attenzione per cogliere quello che avviene attorno a noi. Siamo curiosi di vedere come sacerdoti, suore, laici reagiscono o si comportano di fronte ad un contesto migratorio notevolmente mutato, di fronte ad una indifferenza religiosa marcata e diffusa, di fronte ad una chiesa dai mille volti e dalle mille sfaccettature che più di una volta può dare l’impressione di dimenticare alcuni tratti fondamentali della sua natura, tanto da indurre alcune persone impegnate nelle missioni linguistiche a chiedersi se vale la pena investire sulla integrazione dei cattolici di lingua italiana nella chiesa locale.

Come per tutti i missionari, il nostro impegno diventa anche motivo per verificare idee e progettazioni, ma anche per rivedere i nostri parametri teologici e pastorali.

Stiamo anche cercando di cogliere il filo rosso che unisce e dà senso ad una multiforme presenza missionaria tra gli emigrati ed i loro figli, anche se la prima sensazione è quella di un cantiere con tanti compartimenti stagno. Le missioni, in genere, generano una mole di attività che ha del sorprendente, ma spesso si stenta ad intravedere un piano unitario globale, oppure una marcata specificità pastorale che parta da una lettura sapienziale delle migrazioni. Alcune scelte sembrano fatte su misura del singolo missionario. Ma forse respiriamo questo stile da un comportamento abbastanza tipico dell’emigrazione non solo italiana. Se guardiamo ai Comites, alle associazioni regionali e locali, ai gruppi di interesse, alle segreterie dei partiti ecc. riscontriamo un notevole frazionamento, una parcellizzazione ed una accentuazione di personalismi che rendono assai ardui il dialogo, la ricerca di comunionalità, l’impegno per battaglie comuni.

Come essere significativi oggi, in questo specifico contesto: significativi a livello di chiesa locale e a livello di comunità emigrata? Quali cambiamenti operare e su quali supporti teologici basarsi per operare tali cambiamenti? È giustificato continuare a parlare di Missioni che devono cambiare o sarebbe più profetico parlare di una chiesa tutta (laici, religiosi e presbiteri indigeni o immigrati) che deve intraprendere un cammino di conversione, di collaborazione, di condivisione e di comunione? Ma chi siamo noi per azzardare un simile discorso?

Un quadro di ombre e di luci

(ombre)

Chiusure di missioni linguistiche dovute ai più svariati motivi.
Invecchiamento fisico e psicologico, malattie e stress che colpiscono gli operatori pastorali, spesso soli e senza una direzione spirituale.
L’impressione diffusa che la pastorale migratoria in alcune zone sia sempre più appalto esclusivo di consigli di amministrazione che determinano le scelte pastorali in base a criteri meramente finanziari. I tagli drastici apportati sono solo a motivo di maggiori risparmi. (Per assurdo: si eliminano missioni, si reinvestono i fondi in azioni sicure che permettono di sopravvivere senza la riscossione delle tasse, garantendo alcuni posti di lavoro e la gente sciama dalle chiese. L’ultimo spenga la luce).
Alcuni rappresentanti del clero e del laicato locale che a volte danno la sensazione di non avere ancora compreso pienamente che cosa significhi e che cosa comporti vivere la cattolicità in un contesto multiculturale, tanto da insistere su “integrazione ma non comunione” invece di “integrazione nella comunione”.
Catechesi e predicazione alquanto indifferenti alla composizione multilculturale e alle differenti estrazioni religiose dei fedeli.
La tentazione o la disperata scelta del missionario di rifugiarsi nel piccolo gruppo di fedeli praticanti, quasi rassegnato a svolgere una attività che punta esclusivamente sulla gestione e sull’abbellimento di un bar frequentato dai soliti habitués (Missione club).
L’impreparazione di parecchi immigrati a far parte di una unità pastorale o di una parrocchia multiculturale.
La vexata quaestio delle tasse del culto.
Il disinteresse per quello che concerne la comunità italiana.
“Tra gli italiani cresce il benessere ma cala la spiritualità” dell’accettazione dell’altro. La comunità ha raggiunto uno status sociale elevato presso la società svizzera (“Sono meglio dei turchi e dei tamil”) per cui si arroga il diritto di dimostrarsi razzista nei confronti degli ultimi arrivati.
I luoghi di raduno e di attrazione si sono spostati altrove. Una volta la Missione costituiva un punto di transito obbligato e ci sentivamo utili e quindi importanti perché gli altri avevano bisogno di noi - anche se non sempre si trattava di bisogni religiosi. Ora che i bisogni primari non sono così impellenti, noi che ci eravamo abituati ad essere gli esperti della gestione del provvisorio proviamo una certa frustrazione nel gestire l’ordinario che obbliga a puntare quasi esclusivamente sulla evangelizzazione, sull’accompagnamento spirituale, sulla carità della cultura, sulla scoperta dei nuovi bisogni emergenti e su un cammino di comunione all’interno della chiesa locale.
Sedentarietà delle comunità, chiusa in se stessa e che dà segni di una forte accelerazione verso la desolidarizzazione (razzismo presente nella comunità, anziani trascurati, genitori lasciati soli di fronte alla droga o rinunciatari nei confronti della educazione dei figli).
Indifferenza religiosa, ignoranza, analfabetismo di ritorno, il diffondersi della magia.
Lo sfaldamento di tante famiglie emigrate.
Comunità religiose che non si distinguono per il loro carisma specifico.

(luci)

Il moltiplicarsi di gruppi di preghiera.
Voglia di gruppi di riflessione.
La crescente domanda di formazione cristiana specifica e di una spiritualità per migranti.
L’impegno nella preparazione al battesimo e al matrimonio.
Il tentativo di creare unità tra i gruppi: consigli pastorali zonali, pellegrinaggi come esperienza di comunione, corsi di teologia per animatori laici.
Missioni generatrici di solidarietà, anche internazionale, e di spiritualità
Stampa come collegamento capillare con tutta la comunità e come momento di informazione specializzata e di riflessione.
Presenza nei decanati e nelle varie commissioni per costruire sensibilità nuove ed aprire strade di comunione.
Asili multiculturali.
Collaborazioni di vario genere con la chiesa locale
Gli interventi di alcuni teologi e di vescovi (cfr. ad es. l’intervento del Vescovo di Solothurn al Congresso mondiale sulla mobilità in Vaticano) che gettano una luce nuova sulla pastorale migratoria e sul cammino di comunione.

 

Che cosa ci resta da fare?

È questo il tema che ci preoccupa e a cui dobbiamo dare risposte precise.
Oggi la Missio ad migrantes comporta puntare i nostri sforzi sulla evangelizzazione o rievangelizzazione di coloro che la chiesa locale ci ha affidati in modo speciale. Il ruolo di una emigrazione, presumibilmente cattolica almeno in origine, richiede infatti ancora qualche cosa di specifico: un principio del resto invocato dal Diritto Canonico per le tante categorie dei christi-fideles laici.

Va comunque “reinventata” una pastorale migratoria in un contesto di diaspora religiosa, come quella svizzera.

Il nostro impegno si rivolge anzitutto a tutelare la fede e permettere di tramandarla in modo specifico a quanto sono rimasti legati alla chiesa o hanno scoperto la fede in emigrazione.

Perché alcune parrocchie svizzere non permettono alla espressività latina di manifestarsi liberamente in campo religioso, mentre sono invece pronte ad adottare uno stile ed una simbologia prese in prestito dalla tradizione protestante? Perché i santuari stanno divenendo il rifugio dei migranti? Perché continuiamo ad importare idee e progetti pastorali dall’Italia e non ci rendiamo conto che tutto questo deve essere rivisitato ed inculturato in ambito migratorio dove si sono sviluppate una cultura ed una religiosità proprie che vanno rafforzate e date in dono alla comunità locale?

Per mandato missionario siamo obbligati anche a pensare a coloro che sono lontani fisicamente o moralmente dalla missione o dalla parrocchia locale, oppure sono lontani per linguaggio, per generazione, per scelta culturale e politica. Essi costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione emigrata. Serpeggiano tra di loro astio e indifferenza nei confronti della Chiesa e di Cristo. La pastorale non significa preoccuparsi solo di chi è legato alla missione. Occorre portare il Cristo a chi è sperduto nell’anonimato della moltitudine. Occorre prestare attenzione a quanti sono “fuori”. Puntare quindi su una pastorale migratoria attuale significa anche voler operare “in periferia”: il che potrebbe apparire una temerarietà, ma non lo è nel contesto missionario emigratorio di chi sa investire speranza negli ultimi, sa dialogare con tutte le forze di partenza e di arrivo.

Che cosa si intende fare nei loro confronti?
Nelle discussioni e nella progettazione delle attività di una missione, quanto spazio è stato dedicato all’impegno missionario rivolto ai “lontani”? Quali le piste e le strategie suggerite?

 

Piste e strumenti di lavoro

Bisognerebbe poter analizzare i verbali degli incontri di delegazione e gli incontri bilaterali tra Conferenze Episcopali per seguire l’evoluzione pastorale e scoprire le nuove linee verso cui si dirige la pastorale migratoria in Svizzera. Possiamo fare riferimento ad alcuni spunti resi pubblici recentemente. Nel comunicato finale dell’incontro bilaterale della Chiesa svizzera e italiana, parlando di evoluzione pastorale, leggiamo:

“Questa evoluzione va sempre più nel senso di équipe pastorali multi e interculturali chiamate al servizio di comunità pluriculturali e multietniche.

Riconoscendo l’importanza di quanto è stato realizzato fino ad oggi nel campo religioso e socio-culturale dalle missioni, i partecipanti hanno sottolineato le necessità di una collaborazione sempre più stretta tra parrocchie territoriali e missioni linguistiche per realizzare una chiesa sempre più cattolica, nel senso universale e plurietnico” (in “Servizio Migranti”, 1/99 p. 19).

Possiamo anche utilizzare per la nostra ricerca alcune frasi prese da una intervista rilasciata dal Delegato nazionale Mons. Spadacini:

“È necessario fare in modo che le Missioni cattoliche italiane in Svizzera siano sempre più espressione di comunità e di comunione, portatrici di valori religiosi e sociali, centro propulsore di vita cristiana con l’apporto operoso dei laici, dei Consigli pastorali delle diverse zone, della stampa. Non si può impostare un lavoro pastorale sull’improvvisazione. Un serio progetto pastorale esige obiettivi precisi, mezzi adeguati e continuità di lavoro” (intervista apparsa su “Il Messaggero di S.Antonio”, 2/1999 p. 38).

E in un’altra parte dell’intervista si legge che occorre “favorire e promuovere un’unità d’intenti nelle attività fra sacerdoti, religiose e laici” (ib. p. 38).

Si può evincere che sono state tracciate delle direzioni precise di marcia e dobbiamo verificare se gli strumenti operativi in nostro possesso rispondono adeguatamente a questo piano.

La creazione di équipes multi e interculturali chiamate al servizio di comunità pluriculturali e multietniche.

Si parte da un dato di fatto: la Svizzera è un paese multiculturale e la chiesa locale deve prendere coscienza di questa realtà e trarne le conseguenze. La gestione di chiese parallele è superata perché non più consona alla evoluzione in atto, anche se vi saranno sempre situazioni che richiedono una pastorale ad hoc per quanti hanno intrapreso da poco la loro esperienza migratoria. È provato, infatti, che il contatto con il missionario linguistico nei primi mesi di immigrazione sia vitale per la perseveranza nella fede.

Chi forma ed organizza queste équipes, chi ne garantisce la visione pastorale multiculturale, chi le rende operative a livello multiculturale?

La necessità di una collaborazione sempre più stretta tra parrocchie territoriali e missioni linguistiche, per realizzare una chiesa sempre più cattolica.

Non si parla di apertura o chiusura di missioni e/o di parrocchie, ma della creazione di équipes multiculturali chiamate a servire comunità multiculturali. Quali sono le piste da imboccare per questa collaborazione non casuale, ma permanente per vivere la cattolicità?

“È necessario fare in modo che le Missioni cattoliche italiane in Svizzera siano sempre più espressione di comunità e di comunione, portatrici di valori religiosi e sociali, centro propulsore di vita cristiana con l’apporto operoso dei laici, dei Consigli pastorali delle diverse zone, della stampa. Non si può impostare un lavoro pastorale sull’improvvisazione. Un serio progetto pastorale esige obiettivi precisi, mezzi adeguati e continuità di lavoro” (intervista a Mons. Spadacini, op. cit. p. 38).

Come dare risalto al significato nuovo che viene dato alla MCI e alla sua dinamica in quanto deve diventare “espressione di comunità e di comunione”?
Il connubio tra missio ad migrantes e missio migrantium nella chiesa locale e nella società, obbliga ad una corresponsabilità, ad un coinvolgimento pieno dei laici, al pieno utilizzo dei mezzi a disposizione e soprattutto alla stesura ed osservanza di un “serio progetto pastorale” zonale e centrale, ma anche ad una ricoperta e ad una lettura sapienziale della propria storia di migranti per coglierne la provvidenzialità nel piano di Dio che vuole fare di tanti popoli una sola famiglia . Quali i passi da compiere?

 

Strumenti operativi

Nell’incontro bilaterale citato sopra (Lugano, 3-4 dicembre), leggiamo:
“Per realizzare questo obiettivo sono stati analizzati alcuni temi:
- il ruolo e le competenze del delegato nazionale e del suo consiglio;
- la formazione dei laici e delle religiose chiamati a prendere responsabilità in seno alle comunità;
- le condizioni di formazione e di inserimento dei missionari e il loro ricambio;
- lo sviluppo di un lavoro pastorale non più isolato ma in team dove i carismi di laici, religiose e sacerdoti si arricchiscono reciprocamente e sono a servizio di comunità pluriculturali;
- i mezzi di comunicazione per sostenere con l’informazione e la formazione, la comunità italiana in Svizzera”(in “Servizio Migranti”, 1/99 p. 19).

Le modifiche in atto e quelle da fare, sebbene siano di natura strutturale, vanno soprattutto intese come volontà di un cambiamento di ottica che vuole accentuare la riflessione e la scoperta di linee teologiche e scelte di campo pastorali nuove, valide sia per gli operatori impegnati nelle missioni linguistiche sia per gli operatori delle parrocchie e dei gruppi indigeni. L’ottica della comunionalità deve essere un progetto di tutta la chiesa di Dio che è in Svizzera.

Abbiamo davanti ai nostri occhi i cambiamenti in atto:
Chiusura di Missioni, soprattutto quelle “piccole”, dove, almeno in alcuni posti potrebbe essere giustificata e plausibile una sperimentazione pastorale intercomunitaria.
Accorpamento di Missioni: questo iter è denso di significato non perché sia una necessità fisiologica, ma perché provoca e porta ad adottare una metodologia pastorale comune che mette in cammino verso la comunionalità piena.

Unità pastorali: progettazione pastorale comune ed attuazione del progetto nelle diverse Missioni; verifiche puntuali; coinvolgimento pieno di tutti gli attori.
“Per i pastori più esperti è facile costatare la necessità di evitare ogni forma di soggettivismo nell’esercizio del ministero e di adesione corresponsabilmente ai programmi pastorali. Tale adesione, oltre a essere espressione di maturità, contribuisce ad edificare quell’unità nella comunione che è indispensabile all’opera di evangelizzazione” (Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, n. 24).

Specializzazione e specificità delle Missioni esistenti: si tratta di un discorso simile a quello che i documenti della Chiesa fanno nei confronti del rapporto ordini e congregazioni religiose e parrocchie. Se la nostra presenza non è specifica – non parte cioè da una realtà “migratoria” per attuare una pastorale di comunione, corriamo il rischio di essere controproducenti. Creeremo delle parrocchie italiane in territorio elvetico.

Impegno nella formazione dei laici. Deve, tuttavia, risultare sempre chiaro lo sbocco operativo e dare preminenza ad una formazione “specifica e specializzata” che parta dal vissuto esperienziale del cammino migratorio e da esso tragga motivazioni teologiche per un impegno comunionale di chiesa. Lo studio della Bibbia, dell’antropologia teologica e delle altre scienze religiose deve sempre partire da un’ottica migratoria.

Vi è la tendenza, in alcuni casi, a trasformare una missione linguistica in un centro di animazione missionaria di una intera zona (corsi per matrimoni, visita agli ammalati e anziani, incontri di preghiera, servizi di consulenza, celebrazioni liturgiche particolari sono pianificati con uno stesso modello): dal centro i missionari partono per dare testimonianza del Signore risorto nelle varie zone.

È in atto una riflessione o si è in dirittura di arrivo per l’accettazione di parrocchie plurietniche o per l’apertura di missioni italiane con strutture proprie ad altri gruppi di immigrati - non solo per la celebrazione della Messa

Tutto questo presuppone un piano globale ed un piano zonale che prevedono:
a) stesura di un progetto missionario comune a cui tutti devono rifarsi e verificare, tenendo conto che ciò comporta uscire dagli schemi acquisiti e puntare tutto su un cammino di comunionalità, eliminando tutto quanto è di impedimento.

Oltre alla formazione del laicato e ad una collaborazione autentica tra missionari e laici, occorre anche tener presente - come fattore di arricchimento per la chiesa svizzera - il carisma specifico degli Istituti religiosi operanti in emigrazione.

b) Rileggere in chiave sapienziale l’emigrazione, scoprendone i tratti originali e le tracce del suo passaggio, studiando l’evoluzione della presenza pastorale delle Missioni linguistiche per metterne in luce i tratti originali e non cadere nella tentazione di accontentarci di imitare tout-court il modello italiano o svizzero.

c) Giocare a carte scoperte: una volta individuati piste e modelli da adottare (cfr. Dichiarazione di cui sopra), e stesa una dichiarazione di intenti, occorre con coraggio prepararci tutti - missionari, suore e laici fedeli - a questa nuova prospettiva, meditando sui principi teologici che ci guidano in questa nuova avventura, elaborando i passi intermedi da intraprendere, entrando in un dialogo serrato con i parroci ed il laicato locali, continuando a coltivare un dialogo costruttivo con diocesi e istituti religiosi per garantire un certo successo a queste linee operative, consci sempre che la fragilità umana fa parte della nostra storia, che non tutti possono camminare speditamente, che “se Dio non costruisce la città, invano vi faticano i costruttori”.

d) Responsabilizzare i laici alla missionarietà.
Il “Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri” ricorda che il presbitero, essendo uomo di comunione, “deve porsi in relazione positiva e promovente con i fedeli laici. Riconoscendone la dignità di figli di Dio, ne promuove il ruolo proprio nella Chiesa, e al loro servizio mette tutto il suo ministero sacerdotale e la sua carità pastorale. Compirà ogni sforzo per suscitare e sviluppare la corresponsabilità nella comune ed unica missione di salvezza, con la pronta e cordiale valorizzazione di tutti i carismi e i compiti che lo Spirito offre ai credenti per l’edificazione della Chiesa” (n. 30).

e) La carità della cultura: opera di sensibilizzazione.
Può sembrare strano che una nazione che ospita il 19% di cittadini stranieri - il tasso di presenze più elevato in Europa, dopo il Lussemburgo - abbia bisogno di accorgersi di una tale presenza. Ma dobbiamo stare attenti a leggere l’evoluzione in atto: le reazioni contrastanti nei confronti di una apertura all’Unione Europea devono farci riflettere sul peso reale che gode la presenza italiana in Svizzera. Il tentativo del predominio del mondo linguistico germanofono avrà delle conseguenze notevoli sulla concezione delle migrazioni e sul rispetto delle varie identità culturali presenti in Svizzera. Vi è il pericolo che siano lesi alcuni dei diritti principali concernenti il mondo delle migrazioni.

La carità della cultura obbliga a fare opinione attraverso l’uso della stampa, privilegiando alcuni temi specifici, organizzare eventi significativi che creino coscienza della multiculturalità in atto.

Un cantiere aperto

E così ci avviamo verso nuove forme di pastorale migratoria fatte di piccoli passi dall’alto e dal basso verso la comunione. È un cantiere aperto con tanti laboratori in cui i gesti e i simboli sono molto importanti e in cui la presenza di una pastorale migratoria diventa segno e profezia di comunione per la chiesa locale.

Tra i tanti laboratori - da approfondire - possiamo citare:
“équipes pastorali multi e interculturali chiamate al servizio di comunità pluriculturali e multietniche”
Pellegrinaggi e incontri di preghiera misti
Immettere nella chiesa locale la ricchezza di cui siamo portatori
Diffondere i carismi di cui sono portatori i numerosi istituti religiosi
Parrocchie multiculturali
Missioni plurietniche
Unità pastorali
Missioni centro di irradiazione, da cui si parte per l’evangelizzazione e l’inculturazione della fede

Conclusioni

Abbiamo intrapreso, pur tra molte difficoltà, un pellegrinaggio di comunione.

Sentiamo viva in noi la necessità di vivere in un esodo permanente, anche per ricordare alla chiesa di mettersi lei stessa in cammino per incontrare l’altro nella sua differenza ed invitarlo al banchetto della comunione. Come missionari la nostra presenza cesserà quando sarà raggiunta la comunione piena all’interno dell’unica chiesa.

Il nostro è un tempo di transizione e di “traghettamento” verso l’altra sponda. Non è più tempo di ricreare strutture vecchia maniera ( che porterebbero alla chiusura a riccio), ma di riqualificare le strutture per vivere l’universalità attraverso un progetto concreto. Si tratta quindi di operare il passaggio da una visione dominata da strutture alla accettazione piena di una visione culturale-teologica che coinvolge nel processo sia le missioni linguistiche che le parrocchie locali. Il cammino di comunione, infatti, è richiesto per tutti. Le unità pastorali pluriculturali, da crearsi, dovranno attuare un progetto comune, tenendo in debito conto le diversità culturali che arricchiscono il volto della chiesa locale. La comunità linguistica non può più essere delegata al singolo missionario o ad un singolo laico, ma ad un team pastorale che attua un progetto di comunione.

È tempo di approfondire le indicazioni che ci provengono dalla Commissione mista e di tracciare modelli concreti che ci aiutino a vivere in pienezza questa “novità di vita”.

(note per una riflessione sul tema a cura del relatore)

Giovanni Graziano Tassello, c.s.
Cserpe
Rütimeyerstrasse 16
4054 Basel

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