Pastorale migratoria: nuove esigenze e adeguate risposte


PASTORALE MIGRATORIA:
NUOVE ESIGENZE E RISPOSTE ADEGUATE

Appunti di una giornata di riflessione tenutasi per gli operatori pastorali (missionari, Suore e laici) delle Missioni italiani di Svizzera. Berna - Zurigo 17-18 novembre 1998

Relazione tenuta da Graziano Tassello

Alcune premesse

1. Missionario come servo inutile

La crisi esistenziale del missionario fa parte della sua natura: seminare, essere presente con la fede e la carità, partire anche senza vedere risultati. "Occorre ammettere con sincerità che si tratta pur sempre di una pastorale straordinaria per l'inevitabile temporaneità dello status di migranti. Lo scopo del missionario di emigrazione non è quello di creare strutture che rendano la sua presenza necessaria, ma quello di rendersi inutile, coltivando la speranza che tutta la chiesa locale diventi migrante e missionaria. "Se il Signore non custodisce la città, invano vegliano i suoi custodi" (salmo 126) ". Al Simposio ecclesiale sulla pastorale per l'emigrazione italiana celebratosi a Roma nel 1992, Mons. Tettamanzi, in apertura dei lavori, aveva affermato: "L'azione pastorale ha una sua analogia profonda con l'opera educativa. L'educatore tanto più riesce nel suo compito nei confronti dell'educando quanto più diventa servo inutile perché l'educando, maturato, ormai cammina con le proprie gambe" (Atti del Simposio della Fondazione ecclesiale Migrantes, Roma, 1993, p. 22).

2. Migranti come protagonisti

La pastorale migratoria mira a creare protagonisti della Buona Novella: non si tratta di formare degli agenti passivi soltanto ricettori della nostra missione pastorale, ma di coinvolgere i migranti in modo attivo e responsabile perché agiscano da veri e propri protagonisti nell'azione missionaria della Chiesa.

3. Un processo naturale

Stiamo vivendo una congiuntura "normale" nella storia delle missioni per gli italiani all'estero: da una parte vi è un calo drammatico di nuovi invii missionari e viene quindi a mancare una potenziale spinta alla innovazione. D'altro canto l'anzianità missionaria (invecchiamento, pensionamento, rientro, diminuzione delle attività) obbliga a nuove scelte strutturali (accorpamenti, fusioni, chiusure, pastorale d'insieme, unità pastorali, ecc.) e ad un ripensamento in chiave teologico-pastorale della missione etnica.

4. Una ristrutturazione generalizzata

Il processo di ristrutturazione non è una novità di questi tempi, ma è un iter normale nella storia delle missioni e delle diocesi. In tante nazioni, ad es. negli USA, in Canada, in Australia si riscontra un acceso dibattito sul tema della ristrutturazione delle parrocchie - che è anche il problema principe per numerose diocesi italiane e svizzere. Insomma facciamo parte di un processo più grande di noi e che ci accomuna con tante chiese nel mondo.

5. Ruolo della missione linguistica in un momento di transizione

Sono tante le domande che sorgono in momenti di passaggio sul significato e sul ruolo hinc et nunc della missione linguistica. Domande che non intendono più avere il tono della rivendicazione (tipico - e a volte profeticamente necessario - negli anni '70), ma un'umile ricerca di propositività: un desiderio di cooperare al piano di Dio per il bene dei fedeli.

6. Reazioni al processo di ristrutturazione

Le reazioni di fronte ad un passaggio epocale sono le più diverse. Ne elenco alcune:

Barricarci dentro la nostra missione-fortezza e difenderci, utilizzando speciosi argomenti teologico-pastorali per assicurare la sopravvivenza di un particolare modello pastorale, magari sobillando la comunità che fino ad ora si era forse mostrata piuttosto freddina nei confronti della pratica religiosa e della pastorale specifica (trasformazione della missione in museo).

Puntare sulla pastorale di conservazione e manutenzione ordinaria: garantire che i muri non ci cadano addosso finché siamo in vita. Dopo il nostro transito, qualcuno si incaricherà di spegnere le luci e chiudere le porte (missioni parallele).

""Sono incapace di zappare", in Italia mi sentirei a disagio dopo aver speso tanto tempo in Svizzera. "So io che cosa farò". Chiederò ospitalità alla chiesa locale, così bisognosa di manodopera, che mi assumerà?, se non altro come ruota di scorta. Qui c'è spazio per tutti" " (la legge della sopravvivenza).

Lasciarci guidare dal pessimismo acritico che porta a chiederci se vale la pena insistere in un accanimento terapeutico per una struttura che, sebbene non abbia ancora terminato il suo compito, sembra mancare di presupposti fisiologici per sopravvivere. Da cui ne consegue che le diocesi o le congregazioni preferiscono inviare preti e suore altrove perché le posizioni lì sono più appetibili perché fanno più notizia.

Ritenere che in questa fase di transizione tutto sia lecito, per cui assistiamo ad apparenti o reali contraddizioni nel comportamento pastorale. Un esempio fra i molti ci viene dalla catechesi. C'è chi è fedele ad una rigida separazione delle comunità puntando su una autosufficienza a livello di corsi, di testi, di metodi e chi invece lascia gestire il tutto dalle parrocchie locali senza magari preoccuparsi di introdurre il discorso della comunione nella diversità.

Concludere che questo momento sia un momento speciale di grazia per cui mi devo sforzare, attraverso la preghiera, la riflessione, la ricerca, di comprendere che cosa il Signore vuole da me e quali sono le risposte adeguate da dare di fronte alle nuove esigenze. Non si tratta di manutenzione, ma di intraprendere una via nuova di leadership pastorale nell'ambito della cattolicità e della comunionalità, dando una direzione ed una idealità a questo momento di transizione.

Ripercorrendo la nostra storia

Se vogliamo davvero metterci alla ricerca di risposte che siano adeguate alle nuove esigenze, è importante prima di tutto ripercorrere le tappe della nostra storia e della evoluzione della nostra pastorale in emigrazione. Non mi dilungo su un tema a voi ben noto, ma giudico con estremo interesse la volontà di iniziare un studio sistematico delle Missioni da parte della Delegazione.

Tempo di risposte immediate

Nella prima grande ed eroica fase delle missioni in Europa, ancora poco studiata, troveremmo delle indicazioni pastorali preziose per il momento storico che stiamo vivendo. Il modello bonomelliano di risposta globale ai bisogni dei migranti e l'attenzione al mutare della situazione con i conseguenti opportuni adattamenti e costanti ritocchi (asili, scuola, ecc.), l'impegno nell'ambito della catechesi, ecc. sono elementi basilari in qualsiasi modello pastorale.

Tempo di confronto e di ambivalenza

Completata la fase della missione linguistica come stazione di servizio, l'insediamento stabile porta alla offerta di servizi specializzati in ambito migratorio. Ma l'aumento della domanda religiosa avviene in un momento di diminuzione dei quadri e di perplessità di varia natura che intaccano chiesa e società in Svizzera. Entrano in crisi non solo le Missioni, ma è tutta la Chiesa in Svizzera che si interroga sul suo ruolo e sul significato della sua presenza nella società contemporanea.

Tempo di cattolicità e di comunione

È tempo di riflessione teologico-pastorale per saper vivere da cristiani nell'agorà dove tra segni contrastanti, tra individualismo sfrenato e processi di globalizzazione economica selvaggi, i valori tradizionali sembrano aver perso il loro peso. Nell'agorà i cristiani discutono di nuove povertà (fame e sete di Dio, anziani, gruppi etnici, i giovani "senza speranza") e del bisogno di dignità per ogni uomo. Si interrogano sul senso della fede in Dio, sulla appartenenza alla Chiesa e sul disegno di Dio, "l'unione in Dio per Gesù Cristo di tutti gli uomini di buon volere" (G. B. Scalabrini, Discorso al Catholic Club di New York, 15.10.1901, in "L'Araldo Italiano", New York, 24.10.1901, p. 1).

Le nostre acquisizioni dottrinali

1. L'interpretazione delle migrazioni

La storia della evoluzione dei modelli pastorali in emigrazione mette in rilievo acquisizioni dottrinali che sono alla base della ricerca di proposte più adeguate, prima fra tutte la visione di migrante sviluppata nel contesto migratorio.

Non possiamo negare che le migrazioni sono un segno di contraddizione e costituiscono un argomento che continua a suscitare emozioni, timori irrazionali, fa emergere pregiudizi atavici. Stiamo assistendo ad un espandersi a macchia d'olio della opposizione velata o aperta agli immigrati, che prima si riteneva fosse una reazione circoscritta ai Paesi ricchi. I provvedimenti messi in atto dai vari Paesi dei Primo o Terzo Mondo dimostrano come la xenofobia goda ovunque di "pari opportunità".

La caduta verticale dell'interesse per i diritti dei migranti, la renitenza delle nazioni a firmare la Convenzione ONU del 1990 su diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie, le crescenti misure restrittive, gli investimenti massicci per erigere sempre nuovi sbarramenti contro eventuali ingressi, l'aumento delle espulsioni: questi e altri segnali ci fanno toccare con mano come le migrazioni siano attualmente considerate un problema, se non addirittura un male per la società di accoglienza. L'analisi emotiva ed enfatica proposta dai mezzi di comunicazione sociale - quando puntano su atteggiamenti di timore, di rifiuto o di compassione - non aiuta a padroneggiare correttamente il fenomeno. Il connubio tra spettacolarizzazione del dolore e dell'emotività e la volontà dei governi di dare segnali forti di chiusura delle frontiere per avere le carte in regola di fronte alla comunità internazionale non fanno che complicare l'analisi dei nuovi movimenti di popoli.

Se, nel caso degli italiani in Svizzera, è cessata una xenofobia più o meno velata, non è meno grave - anche per le conseguenze pratiche - il nuovo atteggiamento che va diffondendosi e che porta alla invisibilità. "Gli italiani non fanno problema", "gli italiani sono ben integrati", "gli italiani sono ben diversi dagli ultimi arrivati" .. e quindi non interessiamo più di loro.

Per noi le migrazioni sono un grande fenomeno sociale da affrontare razionalmente e non emotivamente. "L'opinione pubblica reagisce soltanto a caldo, dividendosi fra coloro che si indignano per il razzismo altrui e si commuovono per la condizione difficile degli immigrati, e coloro che in modo più o meno esplicito mostrano fastidio per la pressione che gli ospiti vanno determinando sulle strutture urbanistiche e sul mercato del lavoro" (G. Barbiellini Amidei).

La nostra storia ed il nostro impegno tra i migranti ci insegnano che occorre coraggiosamente insistere su una valutazione fredda e razionale del fenomeno.

Un approccio razionale presuppone una conoscenza storica della evoluzione del fenomeno. Forse la "razionalità" nei confronti dell'immigrazione non è largamente diffusa in Europa che ha rimosso dalla memoria collettiva una parte essenziale della sua storia sociale. Questo vale non solo per l'Italia ma anche per la Svizzera, che è stata terra di emigrazione prima di diventare una nazione importatrice di manodopera. È difficile spiegare perché siamo continuamente affetti dalla sindrome da invasione quando la realtà storica europea dimostra il contrario. Siamo stati noi ad "invadere" per primi altri continenti con l'invio di 55 milioni di europei oltreoceano!

2. Le migrazioni come risorsa

L'ottica umanizzante, cristiana, porta i missionari di emigrazione ad affermare che le migrazioni, se aiutate ed amate, divengono una autentica risorsa per tutti. È questo il motivo per cui le migrazioni non sono analizzate soltanto sotto il profilo economico (forza lavoro, merce di scambio, costi e benefici), ma si indaga sulla loro valenza complessiva, invocandone una gestione globale che comporti una interazione e non una contrapposizione nel campo economico, politico, religioso, etico e culturale.

La percezione delle migrazione come risorsa induce la cultura cattolica a patrocinare scelte che vanno ben oltre la politica di contenimento e di repressione e puntano sulla pianificazione dei flussi. "Non è detto che di fronte ai flussi delle immigrazioni il politico (o il cittadino comune) non abbia altra scelta che subirli o ostacolarli" (G. Barbiellini Amidei). Dalla imposizione delle politiche immigratorie dall'alto si passa alla concertazione delle politiche, dalla cultura della mobilitazione per le chiusure si procede ad un investimento nella formazione alla multiculturalità e nel ricupero di una memoria storica, attuando anche una generosa solidarietà verso i richiedenti asilo.

Questa visione sposta quindi l'attenzione: prima che un problema politico le migrazioni sono un problema squisitamente culturale e gli operatori che si impegnano in ambito migratorio sono impegnati a produrre una cultura nuova. Dalla cultura della indifferenza si passa alla cultura della differenza, dalla cultura della differenza alla convivialità delle differenze, commentava Mons. Tonino Bello.

Tralasciamo i vari spunti per reinterpretare in modo nuovo le migrazioni a livello di risorsa demografica ed economica. Soffermiamoci un istante ad analizzare l'immigrazione come risorsa culturale.

Il contatto con l'altro ci obbliga ad emigrare mentalmente per allargare la nostra visione, per non intristirci ed incancrenirci nella nostra ottica di piccolo cabotaggio, ripiegandoci sulle identità particolari. L'immigrazione offre la possibilità di riscoprire la propria identità in una visione più ampia e più aperta ad altre culture.

Il sistema scolastico è il banco di prova delle difficoltà che incontra la cultura etnocentrica a fornire strumenti per vivere nelle società multietniche o dove esistono consistenti minoranze non ancora integrate nella corrente maggioritaria della mentalità e del costume. Le migrazioni fanno emergere il bisogno di pensare ad una storia e un destino comune dell'umanità nel suo complesso, nella varietà polifonica delle sue espressioni, nella grandezza delle sue speranze e persino dei suoi errori.

In campo politico l'immigrazione è risorsa in quanto, in un contesto di globalità, le migrazioni fanno capire come la progettualità non può più essere a corto respiro e la politica di cooperazione deve essere uno dei capisaldi di qualsiasi governo. La programmazione e la gestione dei movimenti migratori comporta un enorme processo di tanti cattolici europei per la "romanizzazione" delle chiese locali.

Ci viene ancora in aiuto Soloviev che, parlando dell'identità nazionale, invita le nazioni a cercare non ciò che sono in se stesse, ma ciò che sono chiamate ad essere in rapporto all'umanità intera. "L'idea di una nazione non è ciò che essa pensa di se stessa nel tempo, ma ciò che Dio pensa di essa nell'eternità". La vocazione di un popolo, - e noi possiamo dire di una comunità migrante - sta tutta qui. "Dato che il cristianesimo non chiede la rinuncia alla personalità, allo stesso modo non esige la rinuncia alla nazionalità. Il sacrificio esigito dalle persone come dalle nazioni non è la perdita delle qualità o delle attitudini nazionali, ma solamente la loro trasformazione, in maniera che esse acquistino una direzione e un contenuto nuovi" (M. Campatelli, Esistono le vocazioni dei popoli? Alcuni spunti a partire da Vladimir Soloviev, in: T. Spidlík "Lezioni sulla Divinoumanità", Roma, Lipa 1995, pp. 437-438).

Possiamo cogliere meglio la portata di questa intuizione, confrontandola con eventi storici molti significativi. Nel 1897 a Basilea prende il via ufficialmente il sionismo, la ricerca di una patria per garantire l'identità di un popolo. Anche Scalabrini, Bonomelli e Werthmann, in quello stesso tempo, vogliono salvaguardare l'identità etnica. Ma Scalabrini è anche convinto che il "riconoscimento" della identità generi qualche cosa di nuovo, dato che "l'emigrazione fa patria dell'uomo il mondo": l'unità della famiglia umana: Nel suo discorso al Catholic Club di New York il 15 ottobre 1901, egli può allora affermare: "Sarà il giorno nel quale tutti gli accenti, tutte le voci in differenti lingue, leveranno all'Onnipotente il cantico della lode e del ringraziamento".

La difesa dei tratti culturali-religiosi originari comporta l'accettazione di tappe pastorali intermedie.

4. Uno stile nuovo in emigrazione
Da una visione nuova delle migrazioni, l'impegno dei missionari tra i migranti ha fatto emergere un'altra novità: in emigrazione la collaborazione è d'obbligo.
Nonostante il clima arroventato di fine secolo, che rendeva assai ardua qualsiasi forma di dialogo e di collaborazione (cfr. L'Umanitaria vs. L'Opera Bonomelli), di fatto lentamente le Missioni cercano di tessere alleanze con tutti allo scopo di servire meglio il migrante e mirare alla sua promozione integrale. Le migrazioni sono la cartina tornasole della bontà e della qualità di vita e di impegno di una nazione e di una chiesa. I missionari di emigrazione, forse prima di tanti altri, agiscono da "europei". Fanno parte di una schiera, seppure sparuta, di uomini che hanno colto l'evoluzione in atto, che hanno saputo coltivare rapporti, scambiando intuizioni e cercando insieme soluzioni. Se l'emigrazione è per taluni strumento di divisione, per altri è il ponte che raccorda idealità e progettazioni. Nel 1891 si tiene a Basilea il Congresso del Comitato internazionale della Association International pour la protection légale des travailleurs. Per l'Italia vi partecipa Volpe Landi, presidente della società S. Raffaele italiana, inviato dal beato Scalabrini. Al Congresso erano presenti anche i socialisti.

5. La centralità del migrante in quanto persona

È questo un altro insegnamento che ci proviene dalla pastorale etnica. Concepire le migrazioni come una risorsa rovescia completamente i parametri della carità. Invece di "assistere" il migrante, il migrante passa al centro e tutte le istituzioni devono porsi al suo servizio. Una vera rivoluzione perché implica una formazione del migrante a vivere da protagonista e non da assistito. Ma per esercitare questo protagonismo, il migrante deve essere soggetto di diritto e non oggetto di buone intenzioni.

6. Migrazioni come sollecitazione all'amore e al servizio.

Problemi, drammi, tragedie sono ferite che la tenerezza e la sollecitudine del buon samaritano rimarginano. Non si chiede il passaporto a chi ha bisogno di amore. Ma ricordiamo che la carità induce il buon samaritano ad andare dall'albergatore per ricordargli come deve comportarsi.

Ecco alcuni dei multiformi aspetti dell'amore missionario verso i migranti:

* carità fatta di memoria da salvaguardare

Amare le migrazioni significa forse soltanto proteggere un po' di gente malata di nostalgia - una parola coniata per la prima volta in Svizzera per descrivere lo stato d'animo di emigranti e soldati che dai vari Cantoni partivano in cerca di lavoro all'estero?

Quando si parla di una memoria da salvaguardare, non si tratta di custodire bidoni vuoti, ma di tutelare una diaspora che, quando è stata assistita e tutelata, è divenuta una preziosa risorsa ed ha prodotto una sua cultura, che ha una sua storia di solidarietà, che ha percorso un cammino di fraternità così necessari per essere traghettati con dignità verso il nuovo millennio.

* carità fatta di denuncia dei soprusi - di difesa dei deboli

* carità fatta di sensibilizzazione

Il missionario investe energie in una instancabile opera di sensibilizzazione nei confronti di una società di partenza o di arrivo distratta, chiusa, intollerante. Prima ancora della ricerca di una soluzione politica, si deve fare i conti con un problema culturale.

* carità fatta di una legislazione adeguata

7. Investire speranza negli ultimi

 

Il missionario di emigrazione è l'uomo della speranza.

L'impatto con la drammaticità della situazione migratoria italiana ha spesso indotto tanti a concludere che si tratta di una causa persa in partenza e per cui non vale la pena investire risorse. È sufficiente leggere alcune testimonianze sugli italiani in Svizzera e Germania riportate nel recente volume di Luciano Trincia per renderci conto come la pastorale migratoria sia essenzialmente un esercizio in speranza.

Il missionario cammina a fianco di questi emigrati, li difende, li vuole istruiti, li rende coscienti della loro dignità e li prepara ad un inserimento attivo nella società ospitante. È vigile contro "il violento tentativo di assimilazione" ma desidera anche una loro integrazione attiva: "Guardatevi dal fomentare tra essi qualunque cosa che possa renderli separati dai nuovi loro concittadini" (G.B. Scalabrini).

È la speranza a far ritenere al missionario che l'emigrazione trasforma le barriere in ponti per far nascere il dialogo e la giustizia. "Le migrazioni, avvicinando le molteplici componenti della famiglia umana, tendono alla costruzione di un corpo sociale sempre più vasto e vario, prolungamento ed estensione di quell'incontro di popoli e di razze che, arricchito del dono dello Spirito di Pentecoste, fu trasformato nella fraternità della Chiesa" (Ib.).

La visione di missionarietà tra i migranti: nuovi spunti di pastorale migratoria

I modelli pastorali proposti risentono dell'usura del tempo. La riflessione teologica si sofferma su aspetti particolari che, con l'evoluzione sociale, portano a nuove accentuazioni in ambito pastorale. Se agli inizi del nostro secolo era necessaria una struttura "nazionale" (la parrocchia nazionale) per garantire il pieno rispetto del diritto del migrante ad una assistenza religiosa specifica e se, nel secondo dopoguerra, la Missio cum cura animarum si rivelava in Europa la struttura più duttile per far fronte alle nuove emergenze pastorali, oggi una maggiore consapevolezza della chiesa locale a dare risposte adeguate alle multiformi esigenze culturali del popolo di Dio potrebbe far pensare che una assistenza religiosa specifica sia possibile anche da una struttura "locale", scavalcando la struttura della missione linguistica.

Di fatto sono sorte, soprattutto in ambiente anglosassone, le cosiddette parrocchie multiculturali in cui si cerca di ottemperare ai bisogni dei vari gruppi all'interno di un medesimo tessuto parrocchiale. In altri casi, soprattutto nei grandi contesti metropolitani, molte parrocchie nazionali tedesche, italiane, polacche si sono viste svuotate ed "invase" successivamente da nuove migrazioni e, in alcuni casi, sono divenute parrocchie per nuove etnie, pur conservando statue e simboli tipici di un'altra cultura e religiosità. In altri casi ancora si è assistito alla chiusura totale, alla vendita degli immobili da parte delle diocesi e all'accorpamento di un territorio ad un altro.

In alcuni posti - sempre a livello di pastorale migratoria diretta - si è assistito alla creazione di una casa ("mission house") staccata da parrocchie nazionali o territoriali, da cui - con specifico mandato del Vescovo ed un contratto pastorale con i parroci di una determinata zona - i missionari di emigrazione assistono religiosamente i fedeli emigrati nelle parrocchie dove essi vivono. Questa comunità di preti che cura in solidum un'area un tempo costellata da varie missioni e parrocchie e che opera all'interno di un preciso piano pastorale, costituisce, almeno in alcune parti, un modello alternativo alla missione tradizionale, per un annuncio a tutto campo della comunione alla chiesa di Dio che è in Svizzera.

Possiamo inoltre ricordare la creazione di équipes missionarie (formate da sacerdoti e laici) per la predicazione di "missioni" e per l'animazione di gruppi sparsi sul territorio, con una presenza, una formazione di quadri ed una "direzione spirituale" che si rivelano quanto mai incisive per comunità prive di un "loro" missionario permanente.

In altri casi ancora il missionario di emigrazione diventa cappellano-assistente di una determinata parrocchia (da trasformarsi in parrocchia mista) ove più numerosi sono gli immigrati della sua nazionalità: si può anche pensare ad un parroco "etnico" e ad un cappellano svizzero.

Insomma i modelli pastorali possono variare e ne possono sorgere di nuovi.

È comunque importante in questa fase di transizione strutturale - che richiede per forza delle modifiche e dei cambiamenti e quindi una concertazione non sempre facile con missionari, con gli emigrati, con la gerarchia locale e con le amministrazioni - approfondire le motivazioni teologiche che guidano la pastorale migratoria specifica e che ci rendono più disponibili nella ricerca di nuovi modelli: una ricerca che comunque deve essere anche preoccupazione della chiesa locale, su cui ricade la responsabilità pastorale di tutti i fedeli, anche quelli di lingua e cultura diverse da quelle del posto.

Insomma non si tratta di un problema quantitativo, ma qualitativo. Non si tratta di chiederci quando cesserà l'attualità della missione linguistica ma, piuttosto, quando all'interno della chiesa locale - in stato di esodo permanente - verranno messe in atto tutte quelle iniziative che mirano alla salvaguardia del diritto di ogni cattolico, e quindi anche del migrante, ad esprimere la sua fede in modo genuino, autentico e maturo. Ciò richiede alcuni passaggi fondamentali.

1. Anzitutto non si deve rinunciare al patrimonio dottrinale acquisito durante la nostra storia. I punti accennati sopra devono far parte della metodologia e della ricchezza della chiesa locale, a prescindere dal modello pastorale che verrà scelto. Sacerdoti e laici di qualsiasi estrazione devono fare propri questi valori e viverli.

Occorre inoltre conoscere a fondo la storia della chiesa e della società.

(E questo è un primo punctum dolens: fino ad ora quali sono stati i sussidi specifici di formazione per operatori pastorali e per sacerdoti, quale è stata la teologia pastorale migratoria sviluppata in ambito svizzero, è mai possibile che una pastorale specializzata sia valutata soltanto secondo criteri di mercato?)

2. Missio ad migrantes è ancora attuale se essenzialmente rivolta ad integrare il migrante cattolico nella chiesa del posto.

Ma questa "missionarietà" della nostra scelta vocazionale a servizio della comunione non deve farci dimenticare l'impegno - estremamente attuale - del ricupero dei cosiddetti "lontani", lontani dalle nostre ed altrui strutture, lontani da Dio anche se Lui è loro vicino più di quanto possano immaginare. Non ci inseriamo nel movimento che agisce in un'ottica non de propaganda ma di perseveranda fide per cui la "missione" rimane sempre centro di pre-evangelizzazione e di evangelizzazione.

(La domanda che gli "estranei" si pongono è se la chiesa locale viva in pienezza la vocazione della cattolicità, oppure si riscontrino tendenze e forme che non sono in sintonia con la vera chiesa e scarseggino i segni di comunione nella diversità.

D'altro canto anche le missioni linguistiche a volte offrono il fianco a severe critiche in quanto dall'analisi della pastorale che portano avanti si ha l'impressione che si voglia puntare alla costruzione di un ghetto e non di un cammino di comunione. Inoltre alcuni missionari non imparano la lingua della nazione ospitante, non si "contaminano" con giornali e vita culturale del posto, non frequentano gli incontri, non vogliono farne parte, preferendo l'isolamento e l'autosufficienza)

3. Se la Missio ad migrantes investe nella formazione cristiana, essa allora si trasforma in missio migrantium: il migrante scopre la sua vocazione più autentica, quella di ricordare alla chiesa locale il dovere di vivere la cattolicità e di realizzare la sua vocazione missionaria, diventando cioè "capace di andare verso un 'altrove', per comunicare la sua realtà e per arricchirsi di nuovi valori" (Documento di Capiago 2, 3).

Il migrante riceve da Dio la vocazione a ricordare alla chiesa locale che deve rinunciare ai rapporti di forza, di potere e di numero. Questo esodo della chiesa locale comporta un aprirsi ed un purificarsi delle strutture organizzative e delle espressioni religiose indigene garantendo la comunione (non confusione) tra diverse culture ed espressioni di fede. "Comunione non significa uniformità ma compresenza, accettazione, accoglienza della diversità, nel culto come nella quotidianità della vita" (P. Scaramuzzetti, "Servizio Migranti", 4, 1993, p. 209).

4. La provvidenzialità delle migrazioni: emigrare verso la comunione e l'universalità. La pastorale migratoria è un apprendistato all'universalità e le migrazioni diventano icona di quella unità del genere umano e quel tramite di cammino di comunione nella diversità che è l'espressione più autentica del progetto di Dio. La lingua e la cultura materna, patrimonio di ogni migrazione, invece di chiudere, diventano strumenti di apertura, comunione ed universalità.

La pastorale migratoria autentica accentua l'aspetto di "un popolo in divenire", per cui la salvaguardia della specificità non significa un ancoraggio alle nostre paure, ad una identità fissa, chiusa, immobile e ad una assenza di dialogo con gli altri. Non si tratta, quindi, di propugnare la scomparsa della etnicità e il superamento di ogni forma di nazionalità - il sogno di una certa cultura internazionalista di fine secolo scorso. L'identità culturale ed etnica di una comunità emigrata "diviene, proprio ai fini dell'evangelizzazione, la fonte, il principio, il fondamento stesso dell'interetnicità, dell'intercultura, del dialogo, della solidarietà, in una parola dell'unità e della comunione" (G. Parolin, Missione, spiritualità e identità etnica. Quale rapporto? in "Sussidi preparatori al Convegno di Spiritualità Scalabriniana, 1996, cicl.).

La pastorale migratoria è un progetto di amore che porta l'individuo, la comunità, la chiesa tutta alla "redenzione" delle culture per vivere l'universalità. "L'investimento culturale" (cioè pastorale) nei "figli della miseria e del lavoro" rende questi "poveri" in cammino verso il Regno anticipatori della fraternità pentecostale dove le differenze sono armonizzate dallo Spirito e la carità si fa autentica nell'accettazione dell'"altro".

5. Superata la fase di emergenza e di assestamento, il missionario allarga il suo orizzonte e diventa "persona al servizio della comunione più che del migrante" (D. Mongillo). Questa animazione mira ad aiutare la chiesa di accoglienza a proseguire nel cammino della missionarietà, senza limitazione di frontiere e pregiudizi basati su passaporti, lingue e culture diverse, in una autentica accettazione di forme ed espressioni "altre", ponendo fine all'esistenza di "comunità di maggioranza", messe in crisi da intere categorie di "diversi" con tutte le provocazioni che questo comporta.

Essere missionario della comunione presso la chiesa locale non significa quindi una forma di asservimento al sistema vigente - che potrebbe ridurre il migrante ad uno stato di oppressione. Il missionario si impegna invece ad abbattere il muro che separa i popoli, affinché la molteplicità senza lo Spirito che si chiama babele si trasformi in Pentecoste. Si diviene parte di un team missionario a servizio di un territorio per una pastorale di comunione.

6. Il ruolo del missionario è un ruolo di mediazione, un ruolo ponte. Egli non può vivere a riccio, chiuso e abbarbicato nei valori etnici da difendere ad oltranza, ma deve essere un traghettatore.

7. Il ruolo di profezia del missionario "straniero": con la sua estraneità egli ricorda alla chiesa locale e l'aiuta a vivere in ambito religioso l'opzione interculturale. La missione linguistica ed il suo missionario profetizzano il cammino nuovo dell'Europa che non soccombe alla tentazione di gretti nazionalismi, della pulizia etnica o dell'apartheid morbido o rigido. È un segno, sebbene povero, di un'Europa che vuole testimoniare la possibilità di un cammino di comunione nel rispetto della diversità.


8. L'assenza di una chiara visione teologica, di un corpus organico della dottrina della comunione nel rapporto comunione e pluralità e le conseguenze pastorali della vocazione della chiesa locale alla cattolicità e alla comunionalità rischia di far allargare lo iato tra la comunità locale e la comunità etnica e di perpetuare la vicendevole scomunica sociale e religiosa.

9. I gesti di comunione
"Superando l'ecclesiocentrismo e la introversione della problematica ecclesiastica, tocca ad una chiesa pluriforme compiere il suo annuncio evangelico in una società plurietnica, culturalmente frammentata, politicamente conflittuale" (S. Dianich, Convegno UCEI, Roma, 1985, p. 41).

Il ruolo della missione linguistica diventa vocazione alla comunione, dato che la intentio ultima della missione è l'unità del genere umano, anche se agire all'interno di una chiesa "che non cerca, che non sperimenta, che mostra di temere la pluralità? non può aiutare molto quelli cui chiede di cercare di sperimentare, di entrare nella pluralità" (L. Sartori, ib., p. 34).

Conseguenze

1. Lasciare tracce del nostro passaggio: gli insegnamenti che devono far parte del corpus dottrinale della chiesa locale in campo migratorio. Come trasmetterli loro?

2. Far prendere coscienza al migrante di sentirsi e di diventare risorsa; aiutarlo a scoprire la sua vera vocazione (missio migrantium) attraverso una lettura sapienziale della sua storia e dell'emigrazione in generale. Egli sarà formato ad assumere questa responsabilità, abituandolo a riprendere il cammino dell'esodo (un migrante perenne, come deve esserlo del resto ogni cristiano). La sua tentazione è sempre quella di insediarsi in modo stabile ed adeguarsi al trend, diventando vittima di un individualismo esasperato e di un razzismo di ritorno. L'invito ad un nuovo esodo è quanto mai attuale.

"Questo processo ha inizio con la lettura di fede della esperienza migratoria. Il migrante si scopre come colui che varca una frontiera e non torna indietro. Egli è colui che ha superato i confini e quindi li ha distrutti; ora è pronto a vivere la vocazione di chi va 'oltre' per scoprire il vero volto di Dio e dell'altro. Il 'ricupero' della fede rimette l'emigrante in marcia: un cammino di riscoperta della religione cristiana, un cammino all'interno delle sue radici e della sua famiglia, un cammino di avvicinamento verso gli 'ignoti' che lo circondano, un cammino di donazione che lo porta ad abbracciare il 'volontariato' per sacrificare la sua vita per gli altri" (G. Tassello, Atti del Convegno di Alghero, p. 10).

3. La morte delle missioni-ghetti, delle missioni-fortezza
Una missione quando non è "migrante" cessa di essere parte viva della chiesa: si autodistrugge, distrugge la sua natura di "comunità aperta" per ricadere in un gruppo chiuso, di classe o di casta, privilegiata e puritana. Una pastorale migratoria autentica è invece "laboratorio di cristianità ed icona di comunione", dove si favoriscono tutte quelle sperimentazioni che portano a riconoscere l'altro come prossimo.

Si prospetta, pertanto, la necessità di operare un passaggio da contatti meramente burocratici con la chiesa e le parrocchie del posto ad una mentalità cattolica in cui tutti si sentano parte viva di una chiesa attenta ai bisogni degli altri, in comunione di mezzi, nel rispetto della identità di ognuno. Si tratta di operare un cammino di avvicinamento, di convivenza interetnica, di gesti di cattolicità.

La missione linguistica non punta a divenire piccola chiesa, ma epifania "in loco" di cattolicità tramite la predicazione e la rete di carità. Nata come testimonianza di fraternità, è attenta ad animare comunità aperte alla comunità locale e agli altri gruppi etnici, affinché anch'essi divengano corresponsabili e protagonisti della loro storia. La missione assume il ruolo di mediazione tra la parrocchia e la comunità emigrata, dando priorità alla sua funzione pedagogica oltre che profetica, impegnandosi nella formazione di famiglie e gruppi perché diventino strumenti di comunione con gli altri (uscire dal recinto, dalla missione-ghetto, ostacolare il diffondersi di associazioni chiuse e poco ecumeniche).

4. Porre gesti di comunione ad intra e ad extra

tra i missionari, favorendo sempre di più momenti di comunicazione e di comunione;
gesti di comunione e di verità all'interno della chiesa locale (dialogo, incontri, cooperazione, sensibilizzazione dei catechisti e degli animatori alla "comunione" e alla "cattolicità");
essere coscienti della ricchezza da annunciare, composta di un corpus dottrinale e pratico, di carità che privilegia la gratuità, di una dovizie di carismi da mettere a servizio della chiesa locale;
aprire la propria casa ad altri gruppi.

5. Laicato

L'assunzione di responsabilità da parte di una laicato cosciente delle esigenze dei migranti significa non solo l'assunzione di specifici impegni nella chiesa locale, ma anche la volontà di guidare una comunità o un gruppo privi della presenza continuata di un missionario a crescere in un cammino di fede.

Se, da una parte, questo richiede un ulteriore impegno nella formazione ad hoc, non si può tuttavia dimenticare il ruolo di coordinamento e di animazione che il missionario - sempre più missionario itinerante - può e deve giocare. La creazione di una rete di laici impegnati in varie parti comporta un investimento notevole nell'ambito della formazione e della direzione spirituale.

Ma non dobbiamo pensare che questi leaders laici rivolgano la loro attenzione esclusivamente alla chiesa. Essi devono "uscire dalla sacrestia" e diventare anima e momento propulsore di quella carità genuina che svela il vero volto di Cristo nella società.

Questa carità comporta una vigilanza affinché non si dia adito a discriminazioni, a moti di razzismo e di intolleranza verso la comunità emigrata o da parte della comunità emigrata. La vigilanza deve poi saper rivelare i coni d'ombra che tendono ad essere di proposito accantonati se non addirittura condannati alla invisibilità a motivo della retorica politica dell'emigrazione come risorsa (il mondo degli anziani che hanno bisogno di una "assistenza etnica", il sostegno alla famiglia decimata dalle migrazioni, la persistente povertà materiale e culturale, la mancanza di diritti politici, il poco sostegno alla diffusione di una lingua e di una cultura, con tutte le implicanze che questo ha in una società destinata a divenire sempre più multiculturale).

La vigilanza significa anche il coraggio di denunciare un associazionismo che tende a chiudersi in se stesso, o dove si perpetuano faide regionali o paesane o è succube di un arrivismo fine a se stesso, in cui si parla di emigrati ma non si cerca il loro bene: un associazionismo a volte sostenuto da "rappresentanti di comunità" che di fatto sono espressione di una parcellizzazione e del tutto slegati ad una rete di volontariato. L'impegno in emigrazione non può ridursi ad una clonazione dell'impegno partitico italiano.

Ecco che allora l'investimento nella stampa come strumento di raccordo e di formazione e in corsi di formazione incentrati sulla lettura sapienziale dell'emigrazione possono portare i laici ad offrire proposte concrete non solo nei percorsi di solidarietà e di partecipazione, ma anche in un impegno come comunità emigrata a lottare contro ogni tipo di inquinamento politico e criminale.

6. Investire nei giovani

Il pianeta giovani figli di emigrati, che spesso sembra a disagio sia nei confronti della chiesa locale che di una missione linguistica - anche se trova in uno "stile italiano" di vita motivi per far parte del branco ed uscire dall'isolazionismo - va riscoperto con coraggio e può risultare un punto ideale di cammino comunionale.

7. Adeguare le strutture pastorali alla nuova visione e alle nuove esigenze

Di proposito questo discorso è qui generico. Diventa realizzabile nella misura in cui abbiamo approfondito gli spunti teologico-pastorali sulla presenza ed il ruolo del migrante nella chiesa locale e sul cammino di cattolicità e di comunione che tutti dobbiamo intraprendere.

Conclusione

La vocazione del migrante dicenta icona della vita che tutti i cristiani devono abbracciare. L'invito di Dio ad "uscire dalla propria terra" ci obbliga ad emigrare verso l'altro con il nostro bagaglio culturale e a "riconoscerlo". Il modello pastorale unico è Cristo, il migrante del Padre. Il martirio della comunione proviene dallo Spirito e in questo modo si realizza pienamente il progetto del Padre. Accettare l'esodo come elemento portante della nostra vita mette continuamente in discussione strutture e metodi attuati dalle comunità emigrate e dalle comunità di accoglienza dato che la nostra vocazione del cristiani non è quella di mettere radici, ma di camminare riconoscendoci reciprocamente (Mt. 25): un cammino di comunione e di universalità partendo dalla individualità di ognuno, una anticipazione di Paradiso.

 

Dichiarazione di intenti

Vivendo a fianco dei migranti ed interpretando la loro storia, possiamo ricavarne degli aforismi utili per loro, per noi, per i cattolici svizzeri:

* Ricordati che anche tu sei stato straniero: una memoria che deve diventare memoriale.

* Onora l'altro, onora lo straniero: i pregiudizi, l'indifferenza e l'apartheid morbido non fanno parte delle tue conoscenze di cristiano. Forse li hai subiti. Non ricambiare. Tu hai voluto costruire un modo diverso. Non arrenderti. Continua a sognare, continua a sperare, continua a costruire.

* Non tirarti indietro: la società e la Chiesa hanno bisogno del tuo know-how, della tua esperienza, del tuo coraggio per fare leggi giuste, per regolare i nuovi flussi migratori con equità e con solidarietà, senza tuttavia sbarrare completamente le porte e soprattutto non negando asilo a chi è obbligato a cercare asilo.

* Impegnati, sporcati le mani, non stare a guardare. Non l'hai mai fatto in vita tua, non incominciare ora a prendere cattive abitudini. Abbiamo bisogno della tua saggezza per non perderci di coraggio poiché è difficile lavorare in ambito migratorio; abbiamo bisogno della tua storia di vita e della tua memoria, altrimenti non riusciremo a comprendere un mondo che diventa sempre più multiculturale. Abbiamo bisogno della memoria di ieri per programmare il domani. Abbiamo bisogno di te.

* Scopri il volto di Cristo nell'ospite che viene. Ascolta l'ospite inatteso che ti parla di una patria più vasta, di gente in cammino verso la patria vera.

* Sii curioso, domanda, indaga sulla cultura, conosci tutto sulle migrazioni, suscita curiosità ed interesse negli altri e verso gli altri, suscita interesse in tutti noi che stiamo divenendo così disattenti, così chiusi in noi stessi e nelle nostre piccole identità.

* Diventa un irregolare: so bene che il tuo modo di pensare, che la tua visione universale, che il tuo impegno verso gli ultimi arrivati non è di moda. Ti senti davvero un irregolare nel tuo modo di pensare e di agire. Ma i cristiani sono per vocazione degli irregolari. Questa non è la loro patria.

* Hai varcato le frontiere una volta, quando sei partito o quando hai aperto la porta ed il cuore a chi ha bussato. Continua a farlo. Non chiuderti nel tuo piccolo mondo. Aiuta il compagno che è rimasto indietro. Cammina, continua ad emigrare!

* Tessi comunione, costruisci o ripara ponti in politica, in ambito religioso, nella scuola, in famiglia. L'interrogativo che angoscia il mondo - la possibilità di convivere insieme anche tra persone diverse per tanti elementi - può trovare risposta nella volontà di collaborazione che interessa tutti: così com'è comune il problema, comune deve essere la volontà di affrontarlo assieme.

G. G. Tassello
17 novembre 1998
Bozza non corretta dal relatore

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