Abramo
Abramo
“Sono discendente di Sem, figlio di Noè. Mio padre si chiamava Terach. Nacqui a Ur, un paese abitato dai Caldei, gente pagana dedita all’astrologia. Le mie prime esperienze religiose si confondono con il mio intenso contemplare il cielo stellato. Se guardi le costellazioni, se levi gli occhi in alto, ti fai un’idea di fondo: non gli astri, non le cose create sei chiamato a servire, ma Colui che le ha fatte.
Però devo dire che a Dio mi sono convertito veramente quando Egli stesso mi chiamò: vocazione e conversione nella mia vita coincidono.
E sia ben chiaro: non sono stato io a cercarlo. Fu Lui, il Dio del cielo e della terra, il Dio della vita, il Dio delle grandi promesse, a cercare me.
Un giorno mi parlò. Dio mi chiamava a uscire da Ur e ad abbandonare la casa di mio padre e tutto ciò che costituiva il mio ambiente vitale: il clan, la cultura, le consuetudini, la mentalità. Il comando era perentorio. Non indicava né l’identità, né la collocazione del luogo dove Dio mi mandava, però il mio andare era come profondamente avvitato a una serie di promesse, di cui si rendeva garante Lui, il Signore.
“Farò di te un grande popolo, ti benedirò, renderò grande il tuo nome”. “Diventerai tu stesso benedizione”.
Quando si commenta la pagina biblica che narra questa chiamata che è il fulcro della mia storia, si insiste troppo nel sottolineare il distacco, la durezza del partire. Certo, sono elementi forti, ma non hanno senso se non alla luce delle grandi promesse che Dio mi faceva. Più tardi strinse addirittura una Alleanza: un patto di assoluta fedeltà che coinvolgeva i miei giorni in un vortice di speranza; ma coinvolge anche te, ogni uomo creato da Dio per amore.
Furono le promesse di Dio, fu il patto d’alleanza ad afferrarmi nel profondo del cuore. Io mi percepii amato: amato da Dio, perciò da uno che non poteva né fallire, né tradire. Proprio per il fatto di essere Dio e non uomo!
Voi dite che sono il vostro “Padre nella fede”, ed è vero. Bisogna però chiarire bene i termini dell’espressione, Sì, in certo senso vi ho generati a una qualità di vita del tutto superiore a quella della carne; vi ho generato a Cristo, termine ultimo delle promesse che Dio mi ha fatto.
Ma non certo per potenzialità mia, piuttosto per quella traboccante pienezza di benedizione a cui mi abbandonai con una fiducia che totalizzava tutto il mio essere nell’esercizio del mio credere.
Così rischiai l’avventura di un’obbedienza in cui il mio sì entrava in sinergia con l’onnipotenza dell’amore di Dio. Credere fu espandere me stesso proprio nel lasciare tutto, ma in forza di questa onnipotenza paterna, materna, sponsale che mi sosteneva, che mi benediceva, mi inviava facendo della mia vita una benedizione e una missione.
La mia vita non fu facile ma splendida, perché consegnata a Dio - Amore. Benché sostenuto dalla parola di consolazione ricevuta da Dio, da quell’orizzonte ricco di prospettive che erano le promesse e l’alleanza, il percorso fu segnato da prove e tentazioni. “Avrai una terra” diceva Dio, ma dov’era questa terra? “Avrai un figlio” aggiungeva. Perfetto! Però Sara era sterile....
Ho avuto le mie fragilità e paure. Al capitolo 15,6 della Genesi leggete: “ Abramo ascoltò la voce di Dio e credette”, ma al capitolo 16,1 venite a sapere che “Abramo ascoltò la voce di Sara e si unì alla schiava Agar, per paura di non avere un figlio”.
Ma sempre rimbalzai dalle mie debolezze in una fede più forte. La prova più grande l’ebbi sul monte Moria, deve salii con Isacco. L’avevo avuto, finalmente, questo figlio della promessa! Ed era l’unico mio figlio a cui si rapportava tutto il progetto di Dio circa un futuro di grande speranza: per me e per le generazioni a venire. Ebbene, proprio quel figlio, Dio mi aveva chiesto di sacrificare sul monte. Obbedii ciecamente, ma con un una fede che era l’audacia della speranza in Dio contro ogni speranza umana. Obbedii a Dio, l’autore della Vita. Obbedii a Dio, fidandomi del suo essere Amore, assolutamente fedele alla sua identità a cui egli non può venir meno, mai.
E fu così che non solo Dio risparmiò mio figlio dalla mia disponibilità a sacrificarglielo, ma aprì il mio cuore agli orizzonti di una fiducia solare, senza riserve. “C’è forse qualcosa di impossibile per il Signore?”, così mi aveva interpellato Dio alle Querce di Mamre, quando Sara aveva riso, scettica della promessa e certa solo della sua sterilità.
Ebbene, tutta la mia storia, tutto il mio pellegrinare mi hanno reso missionario di questa risposta: avere fede in Dio vuol dire credere nell’onnipotenza del suo amore che salva. Oggi, domani, sempre. Al di là e al di sopra di tutto.”Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede”.