Accoglienza (Ap 3, 20)
Accoglienza (Ap 3, 20)
“Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me”.
Siamo nell’ultimo libro della Bibbia, nell’ultima delle sette lettere in cui è il Risorto stesso che si rivolge alla Chiesa per purificarla, cioè prepararla ad un incontro più intimo, in cui il Risorto stesso vuole rivelarle non tanto la fine quanto il senso della storia.
E proprio qui troviamo una scena di accoglienza, descritta con pochissime parole.
Come abbiamo visto, tutta la Bibbia è percorsa da scene di accoglienza.
A partire da Abramo, l’accoglienza è più volte presentata come uno spazio in cui Dio interviene, come un’esperienza privilegiata, che Dio spesso sceglie come luogo adatto per intervenire. Come mai? Cosa c’è di speciale nell’accoglienza?
Chi accoglie, deve necessariamente togliersi dal centro, dimenticarsi di sé per l’altro. Forse proprio in questo necessario movimento di decentramento, tipico di chi accoglie un altro, Dio trova lo spazio per intervenire
Preghiamo gli uni per gli altri e chiediamo, per noi e per tanti, il dono di decentrarci. Non è facile, ci vuole l’esercizio di una vita, ma abbiamo fiducia che lo Spirito Santo lo può fare in noi, come in tanti… Questo testo dice che ne vale la pena!
Guardiamolo più da vicino: ci accorgiamo subito che la scena descritta non è poi cosi comune. Colui che sta fuori dalla porta a bussare è il Re dei Re, il Signore della vita e della morte, il Risorto: la massima potenza che viene - anche da Risorto - nella massima impotenza, quella di chi aspetta che la porta si apra dal di dentro.
L’iniziativa è del Risorto, ma l’accento di tutta la scena è la reciprocità. Lo esprimono molto bene i verbi di questo breve testo: sono 6, i primi due esprimono l’iniziativa del Risorto {sto alla porta e busso)e, subito, altri due esprimono la risposta (...ascolta... apre), una risposta che condiziona ( !) l’ulteriore iniziativa di colui che bussa, espressa con gli ultimi due verbi (...entrerò... cenerò). E, come se ancora non bastasse, dopo l’ultimo verbo, cenerò con lui, il testo aggiunge: ed egli con me. Tutto sottolinea la reciprocità, un incontro alla pari.
La reciprocità è propria dell’amore. Sottolineando la reciprocità, dunque, il testo sottolinea che è l’amore la chiave di ciò che qui è descritto: è l’amore che muove Cristo a bussare; è per amore che chi è dentro apre la porta (non il timore, non la convenienza, non il dovere...).
L’immagine della cena non può non far pensare all’Eucaristia. Ciò significa che l’incontro qui descritto non è riservato alla fine della vita. L’esperienza di cui parla il testo è GIÀ realtà nella nostra vita, è un’esperienza già possibile ogni giorno con l’Eucaristia.
Nell’Eucaristia il Risorto in persona ci viene incontro come pane spezzato per trasformare la nostra vita in un pane che si spezza per tanti, non un altro pane, ma il Suo stesso pane.
In noi che ogni giorno ci nutriamo di Eucaristia c’è una trasformazione in atto!
Quando ci definiamo (io sono così e basta!) oppure definiamo l’altro, il nostro compagno, la nostra congregazione, la chiesa locale, in quei momenti non teniamo conto dell’Eucaristia e della sua efficacia, della trasformazione che è in atto.
Stiamo diventando pane, da singoli stiamo diventando persone-comunione.
II futuro certo è il progetto di comunione del Padre, il futuro è la comunione: ci accorgiamo allora di quanto sia inutile ingrossare in noi stessi, in una cultura, in un gruppo, i piccoli e grandi singolaristi.
Questa trasformazione in atto, che vuole farsi spazio, non è solo per noi stessi, ma è essenziale per la nostra missione (Anna Fumagalli, missionaria secolare scalabriniana).