Accoglienza
Accoglienza
Fonti magisteriali
La “buona accoglienza” è l’espressione della carità ecclesiale, intesa nella sua natura profonda e nella sua universalità. Essa abbraccia una serie di disposizioni che vanno dall’ospitalità, alla comprensione, alla valorizzazione, che è il presupposto psicologico per la reciproca conoscenza, dimentica dei pregiudizi, e per una convivenza serena in armonia. L’accoglienza si traduce, inoltre, in testimonianza cristiana (Lettera della Pontificia commissione per la pastorale delle migrazioni e del turismo Chiesa e mobilità umana, 26.05.1978, n. 22, in Enchiridion della Chiesa per le migrazioni, n. 1440).
L’accoglienza è naturalmente chiamata ad esprimersi concretamente in speciali iniziative pastorali. Diciamo speciali nel senso che devono essere appropriate ai destinatari, rispondenti cioè alla loro mentalità, alla loro lingua, alla loro particolare situazione. Ma non si tratta, né potrebbe trattarsi, di iniziative chiuse in se stesse: coloro che vi si dedicano, lo fanno a titolo di delegati delle chiese e delle comunità locali, le quali non sono in tal modo esonerate dalla loro responsabilità. Sebbene la mobilità richieda la creazione di nuove istituzioni d’evangelizzazione, le istituzioni ordinarie sono chiamate ad esprimere la medesima sensibilità.
L’organizzazione dell’accoglienza, nell’afflato della carità, induce così le parrocchie ad essere sempre più comunità, non raggruppamenti anonimi o semplici stazioni di servizio spirituali. (Lettera della Pontificia commissione per la pastorale delle migrazioni e del turismo Chiesa e mobilità umana, 26.05.1978, n. 25, in Enchiridion della Chiesa per le migrazioni, n. 1444).
L’atteggiamento umano e cristiano verso i migranti si esplica in primo luogo nella “buona accoglienza”, la quale è l’iniziale chiave di volta per superare immancabili difficoltà, prevenire contrasti, risolvere problemi. Nella concezione pastorale, poi, la buona accoglienza trova un motivo originale nel fatto che, crescendo la compagine dei fratelli, nascono sì nuove esigenze, ma soprattutto si allargano le dimensioni della carità.
La buona accoglienza è anche elemento indispensabile per prevenire gli influssi negativi sulla fede, curarne la maturazione e far sì che attraverso il movimento migratorio si espanda l’evangelizzazione. Avviene certo che l’immigrazione possa stimolare una maturazione religiosa. Generalmente parlando, tuttavia, il distacco dalla propria terra e da inveterate abitudini provoca traumi profondi, che il mancato adattamento all’ambiente nuovo rende più acuti. L’abbandono delle pratiche religiose, specialmente se la fede manca di una vigorosa carica interiore, può essere il primo passo cui fanno seguito l’assalto di dubbi, il rallentamento della tensione spirituale, il venir meno del senso morale. “L’emigrazione - rileva Paolo VI - provoca crisi religiose e morali così gravi e così diffuse, e avviene con tali sofferenze e tali penose conseguenze, che il ministero pastorale della Chiesa non può disinteressarsi di essa” I pericoli sono maggiori in contesti pluralistici, nei quali la varietà delle denominazioni religiose e la presenza di iniziative di proselitismo ingenerano confusione e disorientamento, capaci di sfociare nell’abbandono della fede nativa. (Lettera della Pontificia commissione per la pastorale delle migrazioni e del turismo, Chiesa e mobilità umana, 26.05.1978, II A, 3-4, in Enchiridion della Chiesa per le migrazioni, n. 1479-1480).
Un atteggiamento di accoglienza è richiesto, infatti, in chi vuole comprendere ed evangelizzare il mondo di oggi. La modernità si accompagna a progressi innegabili in molti campi materiali e culturali: benessere, mobilità umana, scienza, ricerca, istruzione, nuovo senso della solidarietà. Inoltre, la Chiesa del Vaticano II ha preso viva coscienza delle condizioni nuove nelle quali essa deve esercitare la propria missione ed è nelle culture della modernità che si costruirà la Chiesa di domani. A proposito del discernimento si applica la tradizionale consegna ripresa da Pio XII: “Occorre comprendere più profondamente la civiltà e le istituzioni dei vari popoli e coltivare le loro qualità e i loro doni migliori. [...] Tutto ciò che in tali usi e costumi non è indissolubilmente legato con superstizioni o con errori troverà sempre benevolo esame e, quando riesce possibile, verrà tutelato e promosso”. (Documento della Commissione teologia internazionale Fides et inculturatio, 8.10.1988, III, 14, in Enchiridion della Chiesa per le migrazioni, n. 1992).
Il progresso nella capacità di convivenza dell’intera famiglia umana è strettamente legato alla crescita di una mentalità di accoglienza. Ogni persona in pericolo che si presenta alle frontiere ha diritto alla protezione. Per facilitare la determinazione delle cause dell’abbandono del proprio Paese e l’adozione di soluzioni durevoli, è necessario un rinnovato impegno a elaborare norme di asilo territoriale internazionalmente accettabili. Questo atteggiamento agevola la ricerca di soluzioni comuni e ridimensiona la validità di alcuni argomenti, a volte pretestuosamente usati per limitare l’accoglienza e la concessione del diritto d’asilo al solo criterio dell’interesse nazionale (Documento del Pontificio consiglio ‘Cor unum’ e del Pontifico consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, 2.10.1992, n. 10, in Enchiridion della Chiesa per le migrazioni, n. 2128).
Accoglienza e convivialità
Questa virtù discepolare vive di un evidente riferimento al Battesimo, che la fonda e la determina per sempre. L’uomo è stato creato mediante la parola e nella parola. Dio l’ha creato rivolgendogli la parola; per cui, nel passaggio dal nulla all’esserci, l’uomo è stato l’interlocutore di Dio. L’uomo è stato creato per rispondere: a Dio anzitutto, alle altre creature poi. È stato costituito come un essere che deve rispondere, corrispondere, collaborare, cooperare, convenire. L’uomo è un essere di attesa, è un essere di vigilia, è un essere d’accoglienza.
Il senso dell’accoglienza dev’essere un segno distintivo della psicologia del cristiano dal momento che all’inizio della sua esistenza c’è il gesto d’accoglienza della Chiesa nella sua casa: quel gesto, in un qualche modo, deve caratterizzare tutta la sua esperienza di discepolo di Cristo e di membro di una Chiesa che è comunità e si propone di suscitare, dovunque e fra tutti, solidarietà, recupero, pace, in una parola: comunione.
La virtù dell’accoglienza, quale virtù tipicamente eucaristica, che nasce e s’irrobustisce dalla frequentazione del convito pasquale, si fa riconoscere per un atteggiamento consequenziale di calda e fraterna intesa, di sincera e partecipe amicizia, di mutua e profonda solidarietà.
La virtù dell’accoglienza chiede d’esercitare l’amore nell’atto di accettare l’altro, di riconoscerlo per tutto quello che è; comporta di rispettare l’altro, di accoglierlo nella nostra vita, prima che nel tempio e nella nostra casa, con ospitalità piena e delicata. Ciò implica anche tante altre virtù, fra le quali ricordiamo: la capacità di ascolto, la tolleranza, il senso sacro della persona umana, la discrezione.
Convivialità
L’Eucaristia giustifica la convivialità. La precedenza temporale e logica (c’è anche una “logica” dei misteri) del Battesimo sull’Eucaristia, stabilisce il movimento virtuoso che dall’accoglienza porta alla convivialità: si accoglie per fare l’esperienza della convivialità. L’intima colleganza fra queste due virtù fa dire che l’accoglienza è virtù germinalmente eucaristica e la convivialità è virtù compiutamente battesimale.
La confidenza dell’appartenenza alla stessa famiglia ecclesiale, per essere nati dallo stesso letto nuziale (fonte battesimale) e, soprattutto, per essere commensali alla stessa cena di famiglia (altare-mensa), pretende dai cristiani un atteggiamento consequenziale di calda e fraterna intesa, di sincera e partecipe amicizia, di mutua e fraterna solidarietà, che con parola abbreviata viene chiamata convivialità.
Nome della nostra condizione di pellegrini, la convivialità è, altresì, il nome del nostro futuro ultimo: la vita eterna è la convivialità trinitaria, espressa dalla familiarità del banchetto a cui il Figlio invita quanti sono disponibili all’accoglienza trinitaria: “Ascoltate, io sto alla porta e busso. Se uno mi sente e mi apre, io entrerò e ceneremo insieme, io con lui e lui con me” (Ap 3,20).
L’unica mensa eucaristica crea lo stile conviviale che porta ad accogliersi l’un l’altro, rendendo così possibili il vicendevole servizio tra i fratelli e la missione per espandere e radicare la carità salvante di Dio nel cuore degli uomini, nelle loro opere e nei loro giorni: “La convivialità, come tendenza della cultura, deve farsi commensalità, come esperienza tra le culture. Per cambiare il mondo al segno della giustizia, occorre cambiare la vita al segno dell’amore” (S. Palumbieri). In un certo senso c’è una sottomissione della storia alla qualità della persona: la storia è come sono le persone che la fanno.
Lo stile accogliente chiede d’esercitare l’amore nell’atto d’accettare l’altro, di riconoscerlo per tutto quello che è: comporta di rispettare l’altro, di accoglierlo nella nostra vita, prima che nel tempio e nella nostra casa, con ospitalità piena e delicata. Ciò implica anche molte altre virtù, fra le quali ricordiamo: la capacità d’ascolto, la tolleranza, il senso sacro della persona umana, della discrezione. La Parrocchia, nel suo insieme, è chiamata a praticare la virtù dell’accoglienza; è una virtù tipicamente eucaristica, che nasce e s’irrobustisce dalla frequentazione del convito pasquale. Essa si fa riconoscere per un atteggiamento consequenziale di calda e fraterna intesa, di sincera e partecipe amicizia, di mutua e profonda solidarietà.
Nata al fonte battesimale, la Comunità parrocchiale trasporta all’ambone e nel suo spazio vitale l’insegnamento e il tirocinio educativo della virtù dell’accoglienza. Essa ricorda ad ogni suo figlio e ad ogni sua figlia che non è possibile dimenticare come all’inizio della loro esistenza cristiana ci sia stato il gesto di accoglienza della Chiesa madre nella sua casa: quel gesto, in un qualche modo, deve caratterizzare tutta la nostra esperienza di discepoli di Cristo e di membri di una Chiesa che è comunità e si propone i suscitare, dovunque e fra tutti, solidarietà, recupero, pace, in una parola, comunione.
Il cristianesimo è religione conviviale: pertanto, ai cristiani conviene pensare, decidere e progettare insieme. Siamo molti per una sola missione. Questo sentire di fede dispone alla muta accoglienza, allo spirito collaborativo, alla volontà della condivisione. Fra l’altro, anche la sapienza umana lo consiglia: è meglio sbagliare insieme che indovinare da soli. Vivere nella storia con lo stile della convivialità eucaristica: “
La convivialità come tendenza della cultura, deve farsi commensalità, come esperienza tra le culture. Per cambiare il mondo al segno della giustizia, occorre cambiare la vita al segno dell’amore” (S. Paolumbieri). In un certo senso c’è una sottomissione della storia alla qualità della persona: la storia è come sono le persone che la fanno. La cultura o la “civiltà della tenerezza”, come ama esprimersi Giuliana Martirani, s’apre a stella: è tenerezza verso se stessi, verso il prossimo, verso il creato, verso i popoli (La civiltà della tenerezza. Nuovi stili di vita per il terzo millennio, Milano 1997, 51-149). Si tratta, in modo particolare, d’impegnarsi a creare una cultura della convivialità che realizzi la fecondazione reciproca delle differenze. La Parrocchia, quale comunità eucaristica, nel suo piccolo, è chiamata ad assumere questo vasto e delicato progetto di convivialità, fatto di venerazione della verità, di sincera umiltà verso il mistero che serve di mutua e profonda solidarietà fraterna.
Lo stile del servizio
Fra le parole più centrali, e di fatto più usate, per dire la vita della Chiesa, c’è quella del servizio. Questa parola è inevitabile nella vita della Chiesa, perché essa è, anzitutto, una parola che evoca l’evento trinitario: creando e provvedendo, redimendo e salvando, chiamandoci in cielo e glorificandoci per l’eternità. Dio stesso rende un misterioso servizio all’uomo, che l’uomo non saprebbe darsi con le sue mani, dacché nel cristianesimo, come ben sappiamo, non esiste autoredenzione, autosalvezza, autogiudizio, autoglorificazione.
La Chiesa, pertanto - anche nel suo rendersi visibile nelle Parrocchie (cfr SC, n. 42) - esperimenta, quale soggetto e destinatario del mistero salvifico, il servizio che Cristo rende all’uomo. Da questa premessa discende una conclusione: in una Parrocchia tutti debbono sentirsi a servizio, dal Parroco all’ultimo dei fedeli. La Parrocchia è casa di tutti: tutti debbono servirla, nessuno deve diventarne padrone; tutti debbono servirla godendo che si sia in molti ad aiutarla a vivere, a crescere, a servire, a sua volta, l’unico Signore che merita tutti i nostri servizi, resi nel modo più degno e più disinteressato (Mons. Michele Giulio Masciarelli, da un articolo apparso su “Avvenire”, 28 giugno 2003, e su “ Il Nuovo Amico del Popolo” di Chieti, 25 gennaio 2004).
Lo stile della convivialitàLo stile dell’accoglienza