Che cosa si intende con il termine “accoglienza”?
Che cosa si intende con il termine “accoglienza”?
(spiritualità murialdina)
Accogliere non è per prima cosa aprire la porta della propria casa ma è uno spirito, un atteggiamento interiore. È prendere l’altro all’interno di sé, anche se è una cosa che disturba e toglie sicurezza; è preoccuparsi di lui, essere attenti, aiutarlo a trovare il suo posto nella società.
Da questo conseguentemente nasce la scelta di vita capace di superare i termini tradizionali di carità e servizio in favore della condivisione, intesa come partecipazione alla vicenda dell’altro per assumerne condizioni e problemi.
Il documento programmatico per gli anni ‘90, Evangelizzazione e testimonianza della carità ha una parola precisa al riguardo: può essere facile aiutare qualcuno senza accoglierlo. Accogliere è fare spazio nel proprio tempo, nella propria casa, nelle proprie amicizie. La carità è molto più impegnativa di una beneficenza occasionale: la prima coinvolge e crea un legame, la seconda si accontenta di un gesto (...).
Senza solidarietà concreta non c’è vera e piena fede in Cristo. Anzi come ci ammonisce l’apostolo Giacomo senza condivisione con i poveri la religione può trasformarsi in un alibi o ridursi a semplice apparenza.
La compassione (non quella perbenistica), o per meglio dire il dividere la stessa passione è il punto di partenza per 1’accoglienza, che dà forma all’ascolto che porta a condividere la situazione di sofferenza e che si manifesta con una presenza viva, palpabile, vicina. Questa compassione nei confronti della persona ferita non è una emozione passeggera ne un gesto di tenerezza senza futuro, essa esige una fedeltà nella relazione.
Accogliere non è facile
Accogliere è terribile - dice J. Vanier che sull’accoglienza ha giocato tutto - perché quando lo si fa come stile di vita, scopro la mia povertà e le mie debolezze, la mia incapacità di intendermi con alcuni, i miei blocchi, la mia affettività turbata, i miei desideri che sembrano insaziabili, le mie frustrazioni, le mie gelosie, i miei odi e le mie voglie di distruggere. Finché ero solo potevo credere di amare tutti, adesso stando con gli altri, mi rendo conto di quanto sono incapace di amare, di quanto rifiuto la via agli altri...
Accoglienti non si nasce
Per accogliere bisogna abilitarsi, fare un vero apprendistato perché l’accoglienza non è connaturata all’uomo. E il primo passo riguarda 1’imparare ad aprirsi alla sofferenza altrui: cosa difficile in una società fredda che insegna a chiudersi, a trincerarsi, ad appartarsi, a diffidare di tutte le persone sentite come estranee.
La cultura dell’accoglienza non è la cultura dominante; dominante è la cultura narcisistica che va a definire una personalità incapace ad orientarsi all’esterno, verso gli altri, connotata da infantilismo, personalità dominata dalla avidità di ammirazione, assetata di esperienze emotive.
Per uscire da questa logica ognuno di noi ha bisogno di essere aiutato, costantemente stimolato per non cadere in un bisogno di sicurezza e di comodo. Da qui la necessità di una formazione continua: la cultura dell’accoglienza necessita di continue rimotivazioni nascendo da un rilevante bisogno di ricerca di valori, significati della vita, senso della storia delle persone, il tutto da ricercare nei faticosi percorsi della quotidianità personale e collettivi, nell’interiorizzazione delle esperienze, nei necessari equilibri tra il fare e l’essere: senza questo tutto si brucia in fretta.
Insieme ad altri
È necessaria una formazione, motivazionale ed esperienziale, fatta insieme ad altri: l’accoglienza non è solo la necessità di rispondere a un bisogno di qualcuno, quanto l’esigenza di costruire una società accogliente, una realtà di rapporti che costituiscono nuovi modelli di convivenza, un nuovo modo di essere e di concepirsi famiglia, non luogo dell’individualismo e del particolarismo ma ambito in cui si educa all’amore sociale, presupposto della giustizia. Per questa funzione culturale è necessario un accogliere come utopia nel quotidiano il valore della accoglienza quale partecipazione agli altri del dono ricevuto da Dio Padre (amore misericordioso) è parte integrante dell’essere murialdino.
La straordinarietà nell’ordinarietà che caratterizzava la quotidianità del Murialdo costituisce l’utopia a cui e chiamato colui che desidera condividerne lo spirito.
Per il Murialdo l’utopia non va ricercata, innanzitutto in una società globalmente considerata nella sua vita complessiva, un’utopia regolata dalle leggi della politica (lo sbaglio dell’utopia del ‘68). Il suo luogo è il momento presente, lo spazio reale, quotidiano di una convivenza giusta e felice, in cui l’impiego delle capacità di ognuno sia il più intenso possibile e la risposta ai bisogni di ognuno sia quella realisticamente ottimale: e questo può avvenire solo nella quotidianità delle relazioni interpersonali (Rino Cozza, Accoglienza, “San Giuseppe”, rivista dei Giuseppini del Murialdo).