Accoglienza di Padre
Accoglienza di Padre
Sono stato a un convegno sulla pastorale giovanile intitolato «Le parole che hai dato a me, io le ho date a loro». Ho pensato che la parola data al mio fondatore san Leonardo Murialdo può agevolmente essere trovata nella frase di Gesù: «chi accoglie uno di questi piccoli nel mio nome, accoglie me» (Mc 9,37). So che riprendendo il cammino nel luogo dove mi ha posto la volontà di Dio, non ho da fare altro con i giovani a disagio che essere un’espressione sincera di tale accoglienza filiale. Vorrei dire sempre più con verità: «l’accoglienza che tu o Padre hai dato a me, io l’ho data a loro». In effetti io ritengo di essergli particolarmente riconoscente per avermi condotto finora e proprio qui, dove riconosco una grazia speciale. Devo attestare il suo paterno amore che mi ha chiamato in questo compito così bello e prezioso, per quanto di responsabilità, in questa comunità e nella specifica missione in mezzo ai ragazzi che hanno maggiormente bisogno di aiuto e non hanno una famiglia adeguata che li può sostenere.
Paternità per vocazione
Quando ero impegnato in parrocchia o in opere giovanili ero più portato a predicare e organizzare. Ora nel1’ambito dell’accoglienza sono portato a vivere e amare. La lezione che si impara e più diretta e permanente; alla scuola di Dio, l’abbà da cui proviene ogni paternità, si studia una logica disarmante: come sono stato accolto e amato da Lui, ho da accogliere e fare famiglia anch’io. La stessa struttura in cui abito, una villetta di periferia, con un po’ di giardino circostante, mi pone in un’altra dimensione, rispetto alle istituzioni tradizionali, mi pare più umana, semplice, vivibile, più - neanche a dirlo - di tipo familiare. Dopo sei anni mi sarò anche abituato, ma davvero mi sembra di essere fortunato. La comunità è piccola ma originale: siamo in quattro, con un aggregato laico, e per di più divisi da quasi settanta chilometri. Nonostante le oggettive difficoltà, ci sentiamo uniti lo stesso nella celebrazione eucaristica mattutina, nella missione che ci accomuna a diretto contatto di gomito con i ragazzi che accogliamo in casa, nei periodici incontri di comunità, di consiglio, di fraternità, di ritiro.
Siamo consapevoli di essere stati posti dal Padre al cuore del carisma e di rivivere un po’ 1’avventura del Murialdo con gli artigianelli poveri, orfani e abbandonati. La richiesta che gli giungeva - “fammi da padre!” - più o meno espressamente ci viene rivolta anche oggi. È lo stesso ragazzo che viene accolto e a cui abbiamo aperto le porte della nostra casa che ci interpella perché cambiamo il nostro modo di fare. Saremmo portati ad agire da organizzatori e gestori, rivestendoci del ruolo di assistenti o di educatori e responsabili. Invece ci viene chiesto - anche quando all’apparenza non sembra - di condividere con semplicità la vita quotidiana, di entrare in un rapporto familiare, da padri, fratelli e amici. Specie per un direttore, sono tante le pratiche da sbrigare, le incombenze da affrontare, i contatti istituzionali da mantenere, le questioni da sbrogliare; d’altronde l’organizzazione, e specificamente a livello giuridico, gestionale e amministrativo, non può assolutamente mancare. A questo punto ho dovuto fare chiarezza: il lavoro e fuori, in ufficio, nelle relazioni esterne, ma quando torno a casa, mi svesto del mio ruolo, ho da vivere la vita di casa, quella del fratello con la comunità, possibilmente quella del “padre di famiglia” con i ragazzi.
Gli altri se ne accorgono quando vivo così, con una scelta di vita familiare, o mi lascio trascinare da una mentalità di tipo istituzionale. A volte i ragazzi scherzano chiamandomi “papà” - sanno bene infatti la loro situazione - ma a me non dispiace, perché almeno in quei momenti recupero le volte in cui sono assente e indaffarato.
La ricorrenza della “festa del papà” o degli anniversari in genere fa riemergere il tipo di rapporto che si instaura, specie con i più piccoli e con quelli che sentono la mancanza di un padre vicino (ed è pur vero che a molti manca più il papà che la mamma...). Sarà anche per questo che come giuseppino ritrovo una particolare attrattiva per il modello di san Giuseppe che fa autenticamente da padre a Gesù, pur non essendogli fisicamente tale. La sua è una paternità educativa, si può dire per vocazione, anzi per affido ricevuto direttamente dal Padre celeste. Una missione di capofamiglia e di rappresentante della stessa paternità divina, esercitata fino in fondo con responsabilità e senza risparmio di energie. Chissà se da “custode del Redentore” con quel figlio eccezionale avrà avuto i grattacapi che abbiamo noi con i ragazzi di oggi! Purtroppo noi spesso non ci mettiamo nella relazione giusta e sbagliamo già da come parliamo. Ci scappa di dire che abbiamo un’attività nel campo del disagio minorile, una pastorale giovanile da impostare, un’organizzazione da portare avanti, problemi da risolvere, ragazzi da seguire... mentre sarebbe più corretto - ed esprimerebbe una diversa mentalità sottostante - che abbiamo una vita di famiglia in cui coinvolgerci, persone con cui condividere l’esperienza quotidiana, fratelli e figli con cui crescere e nei quali riconoscere il Signore. Indubbiamente Gesù ha vissuto da figlio in rapporto a Giuseppe e Maria; e noi con altri occhi dobbiamo saper vedere la sua presenza di figlio in coloro che ci sono affidati e per i quali abbiamo assunto funzione genitoriale.
A scuola d’accoglienza
Si tratta di una paternità che senza altro fa leva sulle nostre risorse umane, fisiche e intellettuali, affettive e spirituali, che apprendiamo bene o male dalla nostra esperienza nella famiglia naturale, ma che è tanto più di ampio respiro se la impariamo dalla fonte stessa, ossia da Dio Padre. All’inizio dei periodici incontri di formazione con gli operatori quest’anno sto evidenziando come l’arte dell’accoglienza ce la insegna proprio il Padre celeste: dal suo amore paterno e provvidente, gratuito e infinito, attuale e personale, tenero e misericordioso, impariamo ad accogliere con premurosa paternità, totalità di dedizione, concreta adattabilità, paziente dolcezza. Così diventa possibile sul piano vitale essere accoglienti con un programma non di facciata, condividere noi stessi, dare famiglia e fare famiglia con quel figlio e quel fratello che la provvidenza ci ha donato.
Nell’attuale società cosiddetta “senza padre” è tanto più necessario sapere, che al di là dei padri terreni, c’e sicuramente un Padre celeste che rappresenta insieme l’autorità e l’amore al massimo livello. La regola espressa dalla legge divina e la sconfinata misericordia con le quali si fa presente, coniugano bene l’importanza sia del padre che della madre. Giustamente, e senza pericolosi squilibri, si afferma che Dio e nello stesso tempo padre e madre. In questo senso, senza proiettare i propri fantasmi e problemi irrisolti, può essere positivo che ambedue i genitori siano chiamati, oggi più di ieri, a un rapporto stretto con i figli. Sempre più spesso e richiesto al papà di fare un po’ anche da mamma e viceversa.
Abbiamo potuto constatare come questo Padre non ci ha lasciati soli ed e sempre venuto incontro alle nostre necessità e a quelle dei ragazzi accolti, provvedendo sempre all’occorrenza nelle piccole o grandi cose di ogni giorno. Fatichiamo a volte a ottenere quel consenso che desidereremmo in rapporto alle istituzioni pubbliche o a chi ci dovrebbe sostenere, eppure alla lunga andiamo avanti; in mezzo alle pastoie burocratiche e ai meandri delle normative riescono a passare le nostre ragioni, ci conquistiamo amici, chi chiamano per conoscere la nostra esperienza e un esempio di de istituzionalizzazione. A tale proposito, ad esempio, l’assistente sociale di una ASL ci ha mandato una coppia per poter iniziare una “casa famiglia” con noi, il parroco di una zona vicina ci ha invitato ad animare la comunità sui temi dell’affido e dell’accoglienza, il giudice tutelare ci ha inviato un’assistente sociale di un istituto perché vedesse come noi ci muoviamo, il consiglio provinciale di una congregazione femminile ci ha chiesto di incontrarlo per avviare la riorganizzazione delle sue opere assistenziali...
Se c’è un’originalità nella nostra impostazione, è data dal timbro familiare più che professionale, dalla convinzione che qualità e professionalità vanno coniugate con motivazione e familiarità, dall’obiettivo di voler creare in effetti una famiglia più che una struttura. Nel disegno del Creatore infatti - a cominciare da Adamo ed Eva - c’e la famiglia e il Padre Eterno ne è il fondamento originale. Sebbene gli errori non siano mancati e i nostri interventi non sempre risultino risolutivi, benché i ragazzi riportino frequentemente il marchio delle precedenti esperienze di istituzionalizzazione e spesso non siamo stati favoriti dagli operatori del pubblico e del privato, a me sembra di poter dire che in questi anni, attenti allo stile che ci caratterizza, nello sforzo di superare la mentalità da piccolo collegio, lo spirito di famiglia è cresciuto ed e una realtà che si nota in molte delle nostre case, sia a Roma che a Santa Marinella e a Monte S. Giovanni.
Nelle mani della Provvidenza
Il più delle volte, nella prima accoglienza, non sappiamo dove poi il ragazzo potrà andare stabilmente, ma ci fidiamo della Provvidenza, ed ecco che puntualmente, prima o poi ma sempre al momento giusto, viene fuori la soluzione più adatta, la casa disponibile, la famiglia idonea. Nell’ottica del “dare famiglia” a chi e privo di una famiglia che lo possa aiutare, crescono le “famiglie accoglienti” che fanno “casa famiglia” con noi, nella forma più naturale. Non ce le andiamo a cercare, si può dire che vengono per contagio, o meglio perché c’e un Padre che pensa, Lui per primo, a trovare una casa e una famiglia per chi ne ha bisogno. Anche per le situazioni più delicate e problematiche, quando magari già di- lavoro e fuori, in ufficio, nelle relazioni esterne, ma quando torno a casa, mi svesto del mio ruolo, ho da vivere la vita di casa, quella del fratello con la comunità, possibilmente quella del “padre di famiglia” con i ragazzi.
Gli altri se ne accorgono quando vivo così, con una scelta di vita familiare, o mi lascio trascinare da una mentalità di tipo istituzionale. A volte i ragazzi scherzano chiamandomi “papà” - sanno bene infatti la loro situazione - ma a me non dispiace, perché almeno in quei momenti recupero le volte in cui sono assente e indaffarato.
La ricorrenza della “festa del papà” o degli anniversari in genere fa riemergere il tipo di rapporto che si instaura, specie con i più piccoli e con quelli che sentono la mancanza di un padre vicino (ed e pur vero che a molti manca pi?u il papà che la mamma...). Sarà anche per questo che come giuseppino ritrovo una particolare attrattiva per il modello di san Giuseppe che fa autenticamente da padre a Gesù, pur non essendogli fisicamente tale. La sua e una paternità educativa, si può dire per vocazione, anzi per affido ricevuto direttamente dal Padre celeste. Una missione di capofamiglia e di rappresentante della stessa paternità divina, esercitata fino in fondo con responsabilità e senza risparmio di energie. Chissà se da “custode del Redentore” con quel figlio eccezionale avrà avuto i grattacapi che abbiamo noi con i ragazzi di oggi! Purtroppo noi spesso non ci mettiamo nella relazione giusta e sbagliamo già da come parliamo. Ci scappa di dire che abbiamo un’attività nel campo del disagio minorile, una pastorale giovanile da impostare, un’organizzazione da portare avanti, problemi da risolvere, ragazzi da seguire... mentre sarebbe più corretto - ed esprimerebbe una diversa mentalità sottostante - che abbiamo una vita di famiglia in cui coinvolgerci, persone con cui condividere l’esperienza quotidiana, fratelli e figli con cui crescere e nei quali riconoscere il Signore. Indubbiamente Gesù ha vissuto da figlio in rapporto a Giuseppe e Maria; e noi con altri occhi dobbiamo saper vedere la sua presenza di figlio in coloro che ci sono affidati e per i quali abbiamo assunto funzione genitoriale.
A scuola d’accoglienza
Si tratta di una paternità che senza altro fa leva sulle nostre risorse umane, fisiche e intellettuali, affettive e spirituali, che apprendiamo bene o male dalla nostra esperienza nella famiglia naturale, ma che e tanto più di ampio respiro se la impariamo dalla fonte stessa, ossia da Dio Padre. All’inizio dei periodici incontri di formazione con gli operatori quest’anno sto evidenziando come l’arte dell’accoglienza ce la insegna proprio il Padre celeste: dal suo amore paterno e provvidente, gratuito e infinito, attuale e personale, tenero e misericordioso, impariamo ad accogliere con premurosa paternità, totalità di dedizione, concreta adattabilità, paziente dolcezza. Così diventa possibile sul piano vitale essere accoglienti con un programma non di facciata, condividere noi stessi, dare famiglia e fare famiglia con quel figlio e quel fratello che la provvidenza ci ha donato.
Nell’attuale società cosiddetta “senza padre” è tanto più necessario sapere, che al di là dei padri terreni, c’è sicuramente un Padre celeste che rappresenta insieme l’autorità e l’amore al massimo livello. La regola espressa dalla legge divina e la sconfinata misericordia con le quali si fa presente, coniugano bene l’importanza sia del padre che della madre. Giustamente, e senza pericolosi squilibri, si afferma che Dio e nello stesso tempo padre e madre. In questo senso, senza proiettare i propri fantasmi e problemi irrisolti, può essere positivo che ambedue i genitori siano chiamati, oggi più di ieri, a un rapporto stretto con i figli. Sempre più spesso e richiesto al papà di fare un po’ anche da mamma e viceversa.
Abbiamo potuto constatare come questo Padre non ci ha lasciati soli ed e sempre venuto incontro alle nostre necessità e a quelle dei ragazzi accolti, provvedendo sempre all’occorrenza nelle piccole o grandi cose di ogni giorno. Fatichiamo a volte a ottenere quel consenso che desidereremmo in rapporto alle istituzioni pubbliche o a chi ci dovrebbe sostenere, eppure alla lunga andiamo avanti; in mezzo alle pastoie burocratiche e ai meandri delle normative riescono a passare le nostre ragioni, ci conquistiamo amici, chi chiamano per conoscere la nostra esperienza e un esempio di de istituzionalizzazione. A tale proposito, ad esempio, l’assistente sociale di una ASL ci ha mandato una coppia per poter iniziare una “casa famiglia” con noi, il parroco di una zona vicina ci ha invitato ad animare la comunità sui temi dell’affido e dell’accoglienza, il giudice tutelare ci ha inviato un’assistente sociale di un istituto perché vedesse come noi ci muoviamo, il consiglio provinciale di una congregazione femminile ci ha chiesto di incontrarlo per avviare la riorganizzazione delle sue opere assistenziali...
Se c’e un’originalità nella nostra impostazione, e data dal timbro familiare più che professionale, dalla convinzione che qualità e professionalità vanno coniugate con motivazione e familiarità, dall’obiettivo di voler creare in effetti una famiglia più che una struttura. Nel disegno del Creatore infatti - a cominciare da Adamo ed Eva - c’e la famiglia e il Padre Eterno ne e il fondamento originale. Sebbene gli errori non siano mancati e i nostri interventi non sempre risultino risolutivi, benché i ragazzi riportino frequentemente il marchio delle precedenti esperienze di istituzionalizzazione e spesso non siamo stati favoriti dagli operatori del pubblico e del privato, a me sembra di poter dire che in questi anni, attenti allo stile che ci caratterizza, nello sforzo di superare la mentalità da piccolo collegio, lo spirito di famiglia e cresciuto ed è una realtà che si nota in molte delle nostre case, sia a Roma che a Santa Marinella e a Monte S. Giovanni.
Nelle mani della Provvidenza
Il più delle volte, nella prima accoglienza, non sappiamo dove poi il ragazzo potrà andare stabilmente, ma ci fidiamo della Provvidenza, ed ecco che puntualmente, prima o poi ma sempre al momento giusto, viene fuori la soluzione più adatta, la casa disponibile, la famiglia idonea. Nell’ottica del “dare famiglia” a chi e privo di una famiglia che lo possa aiutare, crescono le “famiglie accoglienti” che fanno “casa famiglia” con noi, nella forma più naturale. Non ce le andiamo a cercare, si può dire che vengono per contagio, o meglio perché c’e un Padre che pensa, Lui per primo, a trovare una casa una famiglia per chi ne ha bisogno. Anche per le situazioni più delicate e problematiche, quando magari già disperavamo della riuscita, e venuta fuori la risposta giusta. In pochi anni queste famiglie che collaborano con noi e la nostra associazione sono diventate una quindicina (tra quelle stabili e quelle d’appoggio) e resistono... grazie a Dio!
Dal punto vista economico non ci risulta facile mantenere una ventina di case, con una sessantina di ragazzi, il supporto organizzativo, il lievitare dei costi. Cerchiamo di limitare le uscite, di pianificare le spese, facciamo conto in buona parte del volontariato, anticipiamo come comunità religiosa, dilazioniamo se possibile i pagamenti; ciononostante, principalmente per i ritardi delle amministrazioni locali, spesso alla fine del mese stentiamo a far quadrare i conti. Ma dobbiamo testimoniare che la provvidenza non ci e mai venuta a mancare. In sei anni una sola volta siamo stati costretti a ricorrere alla richiesta di un prestito. All’ultimo momento ce la siamo cavata, con un bonifico provvidenziale, la liquidazione da parte di qualche comune, l’offerta piccola o grande di un benefattore. Diversi negozianti non ci fanno pagare: e qualche anno ormai che non compriamo più pane perché c’e un panificio che ce lo regala, al mercato ci danno frutta e verdura, alla fonte l’acqua minerale, alla tintoria ci si offre il servizio gratis, e così via. Piccole cose, ma tutte segno - a ben guardare - di quel1’amore ricco di premurosa accoglienza che il Padre ha verso i figli, di quelle semplici e concrete lezioni che si imparano alla scuola di Abbà. Tra le cose più importanti che ho ricevuto e che ho da donare c’e indubbiamente la fiducia in Dio Amore; anche quando confesso, prima di dare l’assoluzione, , solitamente concludo con la frase “Dio ti ama immensamente! “: mi sembra così di accogliere meglio ogni persona e incoraggiarla nella stessa avventura condotta dalla Provvidenza (Angelo Catalano, Accoglienza di Padre, “Testimoni”, 30 luglio 1999, pp. 20-22).