Spiritualità dell’accoglienza


 Spiritualità dell’accoglienza

“Tutta l’esistenza cristiana è investita dal mistero trinitario, non solo sul piano dell’esistenza personale, ma anche su quello della vita ecclesiale e sociale” (B. Forte, Sull’amore. Letture teologiche, D’Auria ed. 1988, 13.). Il teologo Bruno Forte, autore di questa asserzione, ci rende anche avvisati di un certo “esilio” della riflessione sul mistero della Trinità che, nei tempi scorsi, ha impoverito il pensiero teologico come la prassi cristiana. “Chi vuole imparare ad amare e ne cerca la forza non può tollerare più a lungo l’esilio dalla storia eterna dell’amore che è la Trinità” (Ibid., 14).

Lo stesso si dica di chi vuoi imparare ad accogliere, perché l’accoglienza è un’espressione concreta dell’amore.


La Trinità modello forte dell’accoglienza

Anche in ordine al ministero dell’accoglienza, a cui come donne, come cristiane e come consacrate noi siamo chiamate, si tratta di “perforare” una certa realtà dai risvolti un po’ pragmatisti e scoprire le radici, cogliervi il cuore che fiorisce dal cuore stesso del mistero trinitario.

“Dio ha se stesso donandosi, e solo donandosi. Ma così, proprio donandosi, si ha. Così è. Il suo aversi è la storia di un donarsi e, in questo senso, è anche la fine di un mero aversi. Questa storia dell’amore è Dio stesso” (E. Jüngel, Dio, Mistero del mondo, Brescia 1982, 409).

Nei Tre che si amano a tal punto da vivere in continuo dono di sé all’altro, nei Tre che sono Amore amante, Amore amato e Amore personale si realizza una continua accoglienza reciproca che è pienezza, totalità di dono: “paternità, filiazione e apertura nella libertà, Padre, Figlio e Spirito Santo” (B. Forte, o. c., 37).

Proprio per questo, Dio e l’amore non invecchiano mai, e anche il ministero dell’accogliere è, per chi lo esercita, anzitutto mistero del sapersi accolti da un Dio che è reciprocità di accoglienza della Persona divina nel seno stesso della Trinità.

In Lui, dove unità e originalità delle Persone non solo non si fanno concorrenza ma si affermano proprio accogliendosi reciprocamente, è importante credere vitalmente. Ed è indispensabile la preghiera, per sperimentare quell’essere da Lui continuamente accolti. Lì infatti è la fonte del nostro vivere bene, cioè del nostro sperimentare quella pace di fondo che le difficoltà della vita non possono compromettere. Anche quando la prova rende più difficile il nostro andare, la Parola ci dà certezza di questa accoglienza presso Dio che, se è di ogni momento, forse lo è particolarmente dei momenti esistenziali più sofferti. “II Signore ascolta la voce del mio pianto. Il Signore ascolta la mia supplica. Il Signore accoglie la mia preghiera” (Sl 6,10).

Il rischio è sempre quello di gestire la propria vita, anche in tante opere di bene, da soli. L’attivismo, soprattutto oggi, è una piovra che non risparmia le religiose. Però viene fortunatamente l’ora della stanchezza e il tormento delle delusioni.

Il salmo descrive bene questa esperienza: “Quando si agitava il mio cuore e nell’intimo mi tormentavo, io ero stolto e non capivo: davanti a te stavo come una bestia. Ma io sono con te sempre. Tu mi hai preso per la mano destra. Mi guiderai con il tuo consiglio e poi mi accoglierai nella tua gloria (Sl 73,21.24).


Dopo periodi di stordimento nell’attività troppo spinta, quel percepirsi impotenti al rapporto personale con Dio è buio totale del cuore. Ma dalla lucida denuncia della propria stoltezza, può in umiltà rigermogliare la consapevolezza di essere continuamente accolti da Dio nel tempo, può rifiorire la certezza del Suo misterioso ma certissimo essere con noi e del suo prossimo accoglierci: in pienezza di vita e di gioia, nel giorno senza tramonto.

Siamo davvero di continuo accolti da Dio: nelle nostre suppliche, nelle nostre aspirazioni, nella nostra sincera volontà ch’Egli dimori in noi, perché a nostra volta l’accogliamo in dinamiche di fede, speranza e amore.

Questo suo continuo accoglierci ha sprigionato nei mistici folgorazioni dense di verità esistenziali, proprio perché il loro cuore ha vissuto la reciprocità dell’essere accolto da Dio e di accoglierlo in totale apertura. “Dio è il fuoco in me ed io in lui la luce. Non siamo l’un con l’altro profondamente uniti?” (A. Silesius, II pellegrino Cherubico, Milano 1989, 108).



La parola di Dio un seme da accogliere

La vita cristiana si connota per una particolare accoglienza: quella della parola di Dio.

Non a caso la prima delle parabole è quella del seme, identificato da Gesù stesso con la Parola. E dire “seme” è alludere a misteriosa potenzialità, è dire densità, urgenza di vita e di futuro.


L’ordito della parabola riguarda non solo l’accoglienza del seme, ma il modo di accogliere. C’è chi “accoglie la Parola con gioia” (Lc 8,13). È il seme che germoglia in fretta come in fretta fioriscono in noi i facili entusiasmi, ma poi, nell’impatto con le difficoltà, tutto intristisce e muore.

E c’è chi accoglie la Parola, ma in mezzo alle spine: la ridda delle preoccupazioni e delle ricerche egoistiche: successo personale anche nell’apostolato, comodismo, accaparramento di simpatie, non accettazione di sé e degli altri e conseguenti aggressività o ipocrisie.

Ma c’è finalmente chi accoglie il seme della Parola nella terra d’un cuore buono e sincero in atteggiamento di custodire (cfr Lc 8,15) la Parola stessa dentro le proprie giornate vissute come Maria, la vergine dell’accoglienza. Questo perseverante custodire (cfr Lc 8,15), durante il giorno, la Parola accolta soprattutto nella Lectio Divina d’ogni mattino, questo custodirla in cuore raccolto e vigile, produce frutto (cfr Lc 8,15) di vita autenticamente cristiana e perciò testimoniante. “Accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le anime vostre” (Gc 1,21). La docilità, risvolto esistenziale d’un cuore umile e mite, è un’ottima indicazione circa il modo con cui dobbiamo accogliere la Parola.

Qualsiasi missione apostolica nasce da qui.

Accogli il seme della Parola? È densità, urgenza di vita e di futuro, che non solo entra in te, ti modella e ti costruisce, ma attraverso il tuo perseverante amore darà frutto a suo tempo, proprio per la vitalità di quel seme.

Non c’è alcuna missione, nessun servizio nella Chiesa che non abbia nell’accoglienza e nella custodia della Parola la sua radice. “Mi disse: Figlio dell’uomo, tutte le parole che ti dico ascoltale con gli orecchi e accoglile nel cuore, poi vai dai deportati, dai figli del popolo e parla loro” (Ez 3,10).

Senza una previa accoglienza della Parola nelle modalità cui la parabola allude, c’è chiasso, attivismo, efficientismo. Ma chi accoglie nel cuore la Parola nel modo indicato da Gesù può vivere la missione tra i figli del popolo che sono la Chiesa, può vivere l’accoglienza del fratello.



Accogli Cristo: accogli la gioia

L’accoglienza della Parola è la premessa e l’indicazione più sicura per introdurci ad accogliere la Persona stessa di Gesù. Quando Giovanni, nel suo mirabile prologo al Vangelo, parla del Verbo “Luce vera che illumina ogni uomo” (Gv 1,9), ci pone di fronte al drammatico scontro che è connotazione di tutta la storia: tenebre di egoismo ed orgoglio umano che non hanno accolto Gesù-Luce del mondo e vigore spirituale, altissima qualità di quelli che, invece, aven-dolo accolto, sono diventati addirittura figli di Dio (cfr Gv 11-12). Anche nella nostra storia personale si tratta di fare il punto lucidamente della nostra situazione: se accolgo Gesù nella Parola meditata vitalmente, se Lo accolgo nell’Eucaristia preparata e vissuta come cuore della mia giornata, se accolgo Gesù nella sorella, nel fratello (specialmente il più ferito, il più debole e misero), sono assimilata alla luce di Cristo.


Il suo fulgore splende dentro la mia vita umanamente realizzata, perché cristianamente e religiosamente autentica in ordine alla mia scelta-accoglienza della persona di Cristo.


Del resto è così: se veramente mi lascio incontrare da Cristo, fossi anche come Zaccheo appollaiato sul sicomoro di mie false sicurezze del momento, non esiterei a lasciarle per scendere nella casa del cuore e vivere l’esperienza ch’egli fece quando “lo accolse pieno di gioia” (Lc 19,6).


Sì, come dice Chesterton, “la gioia è il gigantesco segreto del cristiano” perché chi accoglie Cristo accoglie la gioia.




Accogli i piccoli e i deboli: accogli la Trinità

Quando i discepoli, nella loro curiosità presuntuosa, chiedono a Gesù chi sia il più grande nel regno dei cieli, Gesù chiama a sé un bambino, lo pone lì in mezzo con l’evidenza di un linguaggio anche gestuale e dice: “In \verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino sarà il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me” (Mt 18,2-3).


Nella densissima citazione sono evidenziati due insegnamenti. Dal punto di vista cristiano bambini non si nasce, si diventa. Nel senso che tutto l’itinerario della conversione è un uscire dalle sovrastrutture del nostro vecchio io inautentico per vestire una semplicità che consenta al cuore d’imparare ad amare.


Come, in concreto? È il secondo insegnamento: amare significa accogliere ognuno con la consapevolezza che, accogliendo il fratello, è proprio come se accogliessi Cristo Signore. È Lui che ha detto: “Qualsiasi cosa avrete fatto a uno di questi fratelli più piccoli l’avrete fatto a me” (Mt 25,40).

E piccoli lo siamo un po’ tutti, perché tutti abbiamo debolezze e ferite più o meno visibili.

Come dunque non ravvivare in cuore questa certezza così consolante? Anche nei periodi più spiritualmente aridi e difficili, in concreto, l’atteggiamento dell’accogliere un fratello mi consente di accogliere con certezza il Signore.

A una donna profondamente turbata da crisi di fede, in grande notte interiore, un uomo spirituale disse: “Non guardare alle tue tenebre ma alla luce di Gesù”. “Quale luce?”, chiese lei perplessa. “Luce – le fu risposto – è la sicura presenza del Signore, se tu vuoi accoglierlo ogni volta che accogli una sorella, un fratello, un poveraccio”.


Ma la riflessione sull’accoglienza tocca profondità anche maggiori quando Matteo, dopo aver registrato il discorso apostolico di Gesù, ne riporta la conclusione in questi termini: “Chi accoglie voi accoglie me e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato” (Mt 10,40). Quando S. Agostino dice: “In verità, vedi la Trinità, se vedi l’amore” (S. Agostino, De Trinitate 8, 8, 12), allude proprio a questo: là dove un cristiano esprime l’amore accogliendo un fratello, accoglie non solo Cristo, ma con lui il Padre e l’evento irraggiante dell’amore stesso” (E. Jüngel, o.c., 409) che è lo Spirito Santo.



Accoglienza: spazio d’amore in te e nelle comunità

Rassicurati e stimolati dal mistero dell’accoglienza che è accoglienza del Signore in ogni persona che viene, si tratta di abilitarci concretamente al ministero dell’accogliere. Sia come persone singole che come comunità. Ed è - bisogna dirlo - un lungo tirocinio, un’autentica ascesi.


“Accogliere è sempre rischiare, disturba sempre. Ma Gesù non verrà forse a disturbarci nelle nostre abitudini, nei nostri comodi, nelle nostre stanchezze? Bisogna che siamo continuamente stimolati per non cadere in un bisogno di sicurezza e di comodo, e per continuare a camminare dalla schiavitù del peccato e dell’egoismo verso la terra promessa della liberazione” (J. Vanier, La Comunità; luogo del perdono e della festa, Milano 1975, 180).

Sono parole di Jean Vanier, il fondatore della “Comunità dell’Arca”, una delle più riuscite esperienze odierne di accoglienza. E mettono a fuoco una verità che riguarda noi tutte: sia come singole che come comunità.


Nell’ordito del quotidiano in cui la routine e la congerie delle molte (spesso troppe) cose da fare producono affaticamento e pesantezza interiore, si tratta di restare stimolati da quella “mistica” dell’accoglienza di cui s’è scritto più sopra, proprio per acquistare non un’abitudine ma un autentico spirito di accoglienza.


Se colui o colei che accolgo è il Signore, egli bussa anzitutto alla porta del mio cuore; non solo a quella della comunità in cui vivo.


Bisogna che io non m’indugi dentro schemi mentali e sicurezze di comodo, piccoli e grandi pregiudizi e difese. È all’interno di me che devo ascoltare, accettare e accogliere anzitutto la sorella con la quale vivo. E non a caso questi tre verbi segnano un crescendo, e i primi due sono in funzione del terzo; perché accogliere è più che ascoltare e accettare, ma esige l’uno e l’altro atteggiamento. Se dunque non smantello ogni parete divisoria con quante abitualmente vivono come in comunità, l’accoglienza del bambino, dell’orfano, del giovane, dell’anziano, del malato è una parodia. Perché accogliere non è chiudere il buco del mio vuoto interiore, introducendovi una persona che, avendo bisogno di me, mi gratifica.


Accogliere è avere in cuore, ben lucida, quella convinzione: è il Signore che bussa! Questa persona è forse distante le mille miglia da come io la sognerei. Ma l’accolgo così com’è, perché è un volto dell’ineffabile e poliedrico mistero di Dio.


“Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,30).


Bisogna perseverare nel combattimento spirituale. Per la nostra natura avida di consensi, successi, facilità e simpatia, per la nostra natura terribilmente incline a fare del proprio “ego” il centro dell’agire, il “giogo” dell’accogliere in umiltà e mitezza di cuore significa rinunciare a se stessi, vivere in continuo esproprio. Eppure la parola di Gesù non ci deluderà. Proprio vivendo semplicemente l’atteggiamento interiore dell’esproprio, faremo l’esperienza del fardello ma leggero, del giogo ma soave. In concreto si tratta di accogliere l’altro; senza però pretendere di modificarlo, di accaparrarcene la stima e la simpatia o una qualsiasi ricompensa affettiva. Ché, se poi questo avviene, non bisogna gloriarsene né turbarsi. Quanto più io tendo a lasciar vivere in me il Signore, tanto più è la trasparenza di Lui, è la sua luce nei miei giorni che può a volte attirare quello che io, comunque, non cerco. Ed è a Lui, in definitiva, che la persona da me accolta aderisce. Se chiedo al Signore che così avvenga, così avverrà.


Quando poi invece succeda che altri cuori attirino simpatia e affetto di chi è accolto, mi guarderò dall’assecondare quei naturali sentimenti d’invidia e gelosia che possono attraversarmi. “I sentimenti bassi (invidia ecc.) sono energia degradata” - scrive Simone Weil. E, a proposito di accaparramento affettivo: “Possedere è insozzare”, dice. “Amare puramente è consentire alla distanza” (S. Weil, L’ombra e la grazia, Milano 1985, 76). Un cuore umile accoglie l’altro nel pieno rispetto della sua originalità che è il disegno di Dio creatore, anche se a volte sciupato da tante esperienze negative.


Un cuore mite domina talmente la propria aggressività da macinare soltanto benevolenza, pace, dolcezza per chi viene accolto.

Un cuore umile e mite nell’accogliere non esercita nessuna pressione psicologica, nessuna larvata violenza, perché è scevro da qualsiasi tono cattedratico, da ogni presunta superiorità, da ogni moralismo. Un cuore umile e mite tende, giorno dietro giorno, a diventare sempre più a immagine e somiglianza del cuore di Cristo: paziente perché formato a quell’amore che, accogliendo, dona la vita (cfr Gv15,13).

Così resta chiarito che solo la dinamica di una conversione permanente ci rende idonee al ministero dell’accoglienza.

È questa stessa dinamica che ci consentirà, talvolta, di sperimentare l’ineffabile gioia del “mistero” dell’accogliere “come avvenne ad alcuni che accolsero degli angeli senza saperlo” (Eb 13,1) (Maria Pia Giudici, Per una spiritualità dell’accoglienza, “Consacrazione e Servizio”).