Attendere


Attendere

Attendere come piccolo gregge

Il «tutto subito» ha contagiato anche il mondo ecclesia­stico. Si celebrano nascite senza gestazione e sono nascite spurie. Si pretendono raccolti senza mettere in conto i solchi dell’invisibilità e del silenzio, senza la pazienza del conta­dino del Vangelo.


La pretesa ha preso il posto dell
’attesa. E la pretesa è il rifiuto del Sabato santo.

La parola tocca la vita, è consolazione per la vita. Maria ci ridice la piccola parabola del seme, che, caduto in terra, non muore, ma produce molto frutto. Ci invita a resistere anche nei giorni dell’invisibilità, a resistere secondo la logica del Vangelo, del perdersi nella terra, del dare la vita.

 

Ma su queste strade perderemmo ancora una volta il tempo favorevole, l’occasione di grazia che ci è donata: quella di testimoniare nel tempo della notte, nella notte del tempo, che l’unica nostra forza è Dio. Testimoniarlo non venendo meno, ma, come Maria, rimanendo in piedi.

I nostri volti tesi, la nostra voce concitata, la nostra insofferenza per i cammini diversi, per i tempi diversi, le nostre programmazioni rigide vanno nella direzione opposta a quella della attesa paziente di Maria.

Dicono che al centro, a fondamento, non sta la promessa di Dio, ma il calcolo umano.

Sono altri i volti che testimoniano la fede nella promessa: «Si tratta», scrive l’Arcivescovo card. Martini, «di irradiare attorno a noi, con gli atti semplici della vita quotidiana - senza forzature -, la gioia interiore e la pace, frutti della consolazione dello Spirito».


Nei giorni... (Fogli sparsi di un parroco)

 

Attendere è capire che anche le parole, anche le parole religiose, hanno un tempo, un tempo di attesa. Attendere il tempo delle parole della fede, che danno luce - solo un riverbero - ai volti: «È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore» (Lam 3,28).

Attendere i passi della salvezza dentro il dolore degli uomini e delle donne del nostro tempo. Attendere con loro la luce leggera, non arrogante, silenziosa della risurrezione. Attendere le nascite. Accarezzando con occhi incantati il grembo, terra tenera, rigonfio delle donne che conosci e di quelle che non conosci.Lasciarsi invadere dallo spettacolo di dolcezza che segna visibilmente, incancellabilmente, occhi e viso delle donne in attesa.E attendere le nascite che non accadono, condividendo il grido del grembo che rimane vuoto.Stare sul confine dei giorni sognati come una promessa di concepimento e poi vivere l’amarezza dei giorni in fuga, senza accadimenti.

Sperare contro ogni speranza che un grembo possa fiorire: e sia un figlio della tua carne o sia un figlio abbandonato o a fiorire sia, al di là dei figli, la tua vita sorprendentemente, irresistibilmente feconda: «La sterile ha partorito sette volte e la ricca di figli è sfiorita» (1 Sam 2,3).

Sfiorita la civiltà dei consumi, grembo vuoto. Gonfia di vita la generazione dei sognatori, che tutti dicevano sterile. Attendere i germogli. Cercare e ricercare segni sui rami oscuri del mandorlo, quando ancora è inverno. Spiare invisibili tracce di rigonfiamenti, presentimenti di vita in gestazione.

È invocare dall’alto la pazienza del contadino del Vangelo. Contro ogni indebita innaturale pretesa di chi osa forzare i tempi, contro ogni intrusione dello spirito. Contro la violenza delle programmazioni, che esigono, spietate, i risultati alla sera e non conoscono il tempo nascosto dei nove mesi. Uomini e donne della rigidità, che non conoscono né tenerezza né misericordia.

Attendere nell’ingorgo della città, prigionieri del traffico urbano, quando i clacson urlano impazziti la loro impotenza e la loro indignazione.Vivere nel cuore il paradosso delle città che urlano e non sanno ridiscutere i modelli che le hanno edificate, città che portano segni vistosi di un primato dato all’auto e non all’uomo, città della corsa frenetica e non dell’indugio, della sosta.Attendere immobili - è paradosso - sui mezzi dell’alta velocità.

Attendere immobili è sognare piste meno affollate nei cieli. Attendere nella lunga fila, in processione, traguardando, come fosse un miraggio, lo sportello lontano, inaccessibile. Dentro un’umanità senza gloria, dentro le parole vane, dentro i pettegolezzi quotidiani, dentro i discorsi scontati. Attendere è sentirsi parte. Non sopra, ma dentro la misura, la povera misura che ti appartiene, dentro la povertà e il limite che ogni giorno ci segnano corposamente. Tutti segnati, senza esclusioni. Dentro le meschinità, le nostre, che solo Dio conosce e perdona.

Attendere e riconciliarsi. Attendere e fasciare di un sorriso chi si spinge con te nella lunga coda. Attendere il miracolo che a sorriso possa rispondere sorriso e un parlarsi prima con gli occhi e poi con la voce e infine la grazia, ultima, che ci si possa raccontare, ma sottovoce, una pena o un trasalimento del cuore.


Nella chiesa...

Attendere nella Chiesa delle certezze urlate, declamate: Chiesa dei documenti senza dubbi, delle omelie senza attesa, delle cittadelle murate e dei confini. Confini definiti una volta per sempre.

Verità come terra di conquista, Dio come un idolo posseduto e lo Spirito invocato, si fa per dire, perché la verità, per loro, è già tutta svelata.

Essere, nella Chiesa delle certezze, donne e uomini inquieti dietro un mistero che sempre ti seduce da un
’altra valle. Attendere nonostante tutto lo svelamento e custodire, giorno dopo giorno, emozione e stupore. Stare sulla soglia, come sul monte.

Sei la porta 
non un muro 
sordo
e invalicabile, Signore.
Non il fine corsa,
ma l’introduzione. 
E dimora 
all’infinito migrare 
una tenda:
ombre segrete, 
parole dissepolte 
e luce
che trema 
sui volti.


La nuova nascita di sé...


Attendere passi nuovi nella mia vita.
Attendere una nascita, la mia, nel grembo dei settant’anni.

Stralunato come Nicodemo: «Come può un uomo nascere quando e vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» (Gv 3,4).

Fuori dalla presunzione della maturità aggiunta, delle crescite concluse: «Noi siamo discendenza di Abramo. Dio e nostro padre».

Essere come argilla. In attesa del vasaio, in attesa di mani che ci rimodellino nella carne, in attesa di mani che ridisegnino un figlio. Fuori dalla presunzione dei ricchi dello spirito. Solo la povertà è attesa.

 

 

Attendere, nonostante tutto, il Natale. Nonostante le risse, nonostante le corse, nonostante gli sfinimenti.

E giocare - gioco sacro - a immaginare dove sarebbe oggi la nascita del Salvatore. Nascita che avvolge di luce i rifiutati. Dove oggi il campo e dove i pastori, gente di dubbia fede, di dubbia moralità, senza posto nel tempio. Dove.
Immaginare. E dirne, per grazia, i nomi nel cuore. In assenza del coraggio, nelle chiese, di gridarli al vento. Attendere Gesù, nella grande veglia della vita. Dilatare, giorno dopo giorno, l’attesa del suo ritorno.

Cristo atteso nella notte con fiaccole che faticano al vento.

Sognare nella Liturgia la Chiesa rivolta a Oriente, i volti fissi là, da dove verrà il Signore.

Tenere le lampade accese, resistendo al falso miraggio di un regno di Dio sulla terra, all
’immagine di una Chiesa intronizzata, sul modello dei regni della terra. Attendere il Veniente. Attendere, giorno e notte. Come le finestre dell’abside, nella penombra dell’abbazia. Attendere e sognare. A occhi socchiusi (don Angelo Casati, “Il Gallo”, dicembre 2004, pp. 10-11).


Attendere il Natale
Né mi basterà
meno di una vita 
per diventare figlio. 
Abito ancora il grembo
tenero e oscuro
e attendo
di venire alla luce.

Attendere insieme nella notte. La notte in cui due amici ti hanno chiamato, per dirti ciò che mai avresti pensato: è morto un loro figlio, diciassette anni, investito da un’auto impazzita nel buio. Attendere con loro nella grande sala, nella penombra, dove i silenzi, i gesti, le mani prendono più spazio delle parole, dove il buio è interrogarsi senza capire.

Attendere nel buio. E poi l
’emozione delle prime luci dell’alba: filtrano timidamente dalle finestre istoriate, ma senza ferire.
In una stagione della Chiesa in cui, sia pur timidamen­te, va affiorando la consapevolezza di essere diventati piccolo gregge, la reazione potrebbe essere non quella evangelica, ma quella mondana. Qualche segnale - mi sembra di capire - è nell’aria. Ne è segno una certa nostalgia del passato, segno della nostra incapacità a leggere i passaggi di Dio, la sua presenza oggi nel sabato del mondo.

La nostalgia del passato può indurci a rimpiangere i tempi in cui la Chiesa contava e può aprire, purtroppo, la corsa alla pretesa di garantire la nostra sopravvivenza con
riconoscimenti umani e appoggi terreni.