Cammino


 

Cammino


Immagine del cammino


Nell’immagine della sequela (un itinerario dietro a Gesù in cammino verso il Padre nell’obbedienza che lo conduce alla glorificazione) è inclusa abbondantemente l’idea del cammino, la quale evoca normalmente dinamismo, in opposizione alla staticità, che alla fine produce noia; evoca pure l’orientamento verso una meta, che in genere è intesa come crescita, e quindi in grado di dare senso, di schiudere speranza, di suscitare la pazienza che è strettamente connessa con la speranza. Naturalmente la meta verso la quale ci si orienta deve essere appagante: non ci si mette in cammino per arrivare in un luogo nel quale si sa che si starà male (una meta di questo genere sicuramente non crea dinamismo, ma fatica, sensazione d’inutilità, perfino frustrazione).


Al fondo dell’idea del cammino sta una concezione della vita che potrebbe essere detta “sensazione d’incompiutezza”. Se ci si mette in cammino verso, se la storia è orientata verso, esattamente per riempire, per compiere la condizione nella quale si percepisce di trovarsi; non siamo ancora quello che potremmo o quello che dovremmo essere. Né singolarmente, né come umanità.


L’uso dell’immagine è particolarmente frequente in popoli poco stabili


Osservando a rapido volo d’uccello l’uso dell’immagine appena evocata si scorge che è caratteristica dei popoli che al loro interno, nel loro vissuto, non hanno ancora raggiunto una grande stabilità. Ho avuto la possibilità di costatare, per esempio in Brasile, che l’immagine del cammino è frequente nel linguaggio quotidiano; provando ad osservare l’uso abbondante di questa immagine, con il tipo di vita che questo popolo conduce ci si accorge che c’è un richiamo. È un popolo che noi potremmo dire con il nostro linguaggio, un po’ zingaro, non ha stabilità, al punto che uno dei criteri per verificare se una ragazza può stare in convento è se è riuscita a lavorare più di quattro anni nello stesso posto. Questo per dire il senso di precarietà dell’esistenza che è legata a caratteristiche geografiche, sociali, ecc. Il vissuto del popolo si riflette nel linguaggio.


Anche il linguaggio biblico usa abbondantemente questa immagine. La ragione è molto semplice: al fondo dell’esperienza del popolo d’Israele sta un gruppo di pastori seminomadi alla ricerca di pozzi e di pascoli. Quindi potremmo dire che è un dato sociologico che giustifica l’abbondante uso dell’immagine, anche se poi si trasvaluta questo vissuto sociologico. È facilmente constatabile che quando il popolo, arrivato nella terra, rilegge il processo di sedentarizzazione, il cammino compiuto viene inteso come ricerca di una terra, la quale, rispetto al vagare, richiama la stabilità, la garanzia di cibo, la sicurezza. E mentre si è nella steppa o nel deserto bisogna continuamente muoversi per cercare pozzi e pascoli, qui ci si attesta, ci si insedia attorno a delle sorgenti d’acqua in modo che ci sia assicurato quello che è necessario per vivere. Da qui il grande, continuo elogio di Gerusalemme: non solo perché li c’è il tempio di Dio, ma perché lì c’è la sorgente d’acqua, lì c’è sicurezza perché sulla montagna, e quindi i nemici non possono arrivare facilmente a distruggere.


Sulla scorta di questa percezione del cammino, che è anche spostamento fisico, l’immagine del cammino diventa figura di un processo di avvicinamento a Dio. Va considerato con attenzione il capitolo 19,4 del libro dell’Esodo. Dopo tre mesi dall’uscita dall’Egitto il popolo arriva al monte e si sente dire da Dio: “Io vi ho fatto uscire dall’Egitto e vi ho fatto camminare fino a me”. La meta di quel cammino non era semplicemente una terra, non era semplicemente la libertà: era Dio stesso. Il deserto è attraversato per arrivare a Dio, che è proposto poi come la fonte della vita.


Quando poi il popolo è nella terra, si è sedentarizzato, ha costruito le città e ha costruito mura attorno alle città, ripensa alla sua vita e non perde l’immagine del cammino. Anzi, potremmo dire che rivive continuamente - trasvalutandola - questa immagine.


Per incontrare Dio non si può stare alla propria casa. Bisogna andare al luogo da lui scelto che è Gerusalemme. Il salmo 63 è uno dei salmi che esprimono 1’ardente desiderio di Dio. Dice l’esperienza di una persona che è lontana dal tempio e vorrebbe incontrare Dio. E con desiderio diurno e notturno si proietta verso il luogo nel quale lo possa incontrare.


Osservando a grandi tratti la rilettura che il popolo fa della sua vicenda, si potrebbe quindi vedere il movimento dal monte Sinai alla terra, al luogo nel quale si può, in forma di simbolo, sperimentare la sicurezza che Dio procura, al monte Sion. Dal Sinai, alla terra, a Sion. Il viaggio diventa cosi metafora del dinamismo vitale. Non più la terra, ma Dio è il luogo nel quale si può trovare sicurezza.


Il salmo 84 a questo riguardo mi pare meriti un attimo di attenzione: “Quanto sono amabili le tue dimore, Signore degli eserciti. L’anima mia languisce e brama gli atri del Signore”. E qual’èe la ragione? Andando avanti si legge: “Dio è nostro scudo”. Poi: “Per me stare un giorno nei tuoi atri è più che mille altrove, stare sulla soglia della casa del mio Dio è meglio che abitare nelle tende degli empi. Perché sole e scudo è il Signore Dio, il Signore concede grazie e gloria”. Perché si va a cercare il Signore al tempio? Non solo perché il tempio è dentro la cittadella, che è custodita e quindi lì ci si sente al sicuro dai nemici, ma perché il Signore è sole e scudo, che è quanto dire che Lui è la protezione.


Interessante osservare in questo salmo il senso del dinamismo, perché si descrive proprio il cammino, il pellegrinaggio con un trapasso continuo di immagini, dallo stare nella casa del Signore al confidare in lui, al consegnarsi per ottenere vita. E si capisce allora come mai in altri passaggi della Scrittura, in particolare in alcuni salmi, si esprime e si esperimenta una nostalgia struggente del Signore, che è detta nostalgia del tempio, ma è nostalgia figurata del Signore. Il salmo 42-43: “Come la cerva anela i corsi dell’acqua, cosi l’anima mia anela Te, mio Dio. La mia anima ha sete di Dio. La lacrime sono mio pane giorno e notte mentre mi dicono dov’è il tuo Dio”. E la risposta è: “ma ancora potrò lodarlo”. È il desiderio di giungere là ove lo si possa incontrare, ove si possa avvertire la sua presenza e lo si possa lodare. E fa da pendant a questo il salmo 137, ancora più struggente. L’esule, il popolo esule in Babilonia, risponde a coloro che lo invitano a cantare i canti al Signore: “Come posso cantare i canti al Signore in terra straniera. Mi si attacchi la lingua al palato se mi dimentico di te, Gerusalemme”.


Si può lodare il Signore solo là dove Lui è.


Il racconto biblico come parabola dell’esistenza umana


Da questi elementi del racconto biblico, mi pare si possa ricavare la conseguenza che l’esistenza umana - e sappiamo che la Bibbia è anche una parabola dell’esistenza umana - è tutta un percorso, un cammino alla ricerca di un incontro che sia soddisfacente.


È anzitutto una ricerca di stabilità. Osservando l’esperienza religiosa dei popoli si può avvertire come un dato di fondo la ricerca religiosa, che nasce dall’esigenza di trovare sodezza. Nell’itinerario vitale delle persone e dei popoli resta un fondo di insoddisfazione, di inquietudine, anche perché tutto quello che noi incontriamo, che sembrerebbe garantirci sicurezza, a una riflessione attenta mostra di portare in sé il germe della morte.


Se noi proviamo a osservare tutte le realtà alle quali di quando in quando ci aggrappiamo, perché li ci sentiamo sicuri, le avvertiamo fragili. Dopo i grandi innamoramenti per un uomo, per una donna, per una professione, per una vocazione... si constata che l’impatto quotidiano con quella realtà, che nel momento dell’intuizione era apparsa come assoluta, la mostra fragile. L’inquietudine che accompagna l’esistenza porta a cercare sempre qualcosa di più. Fa morire gli idoli che di quando in quando noi ci costruiamo e fa vedere che gli idoli sono il surrogato di Dio.


L’esistenza evidenzia inoltre il bisogno di potersi rifugiare; l’esperienza della vita è l’ esperienza di una minaccia incombente. Se proviamo ad ascoltare il più profondo di noi stessi avvertiamo tutti una sola paura che poi si manifesta in molteplici paure ed è la paura della morte. Perciò l’esistenza è tutta proiettata verso un rifugio nel quale la morte non ci raggiunga.


A ben guardare, però, il rifugio non può essere semplicemente un luogo: deve avere un volto riconoscibile. Forse tutti possiamo ricordare alcune esperienze di paura che nella vita abbiamo attraversato. Arrivati anche in un luogo sicuro si va a verificare che non ci sia nessuno che ci minacci, perché la paura non viene da fuori, viene da dentro. Se in quel luogo c’è un volto riconosciuto, la paura quasi scompare. Questo sta ad indicare che noi non cerchiamo un luogo che sia rifugio, bensì cerchiamo un volto.


Da qui si capisce il dinamismo della denominazione di Dio nella Bibbia. Questo dinamismo mostra che colui presso il quale si trova rifugio è colui che sta al principio della vita. Solo ritornando là da dove si è partiti si può trovare stabilità, si può trovare rifugio. Questo è il senso del termine Padre attribuito a Dio. Poche volte nell’Antico Testamento, molte nel Nuovo Testamento. La fonte della vita è quella che potrà continuare a mantenerci in vita. Allora il cammino dell’esistenza è il cammino verso il Padre. Se proviamo a ripercorrere il testo di “I Corinti 15”, scopriamo che Gesù Cristo che regna a un certo punto consegna il regno al Padre “affinché Dio sia tutto in tutte le cose”. È il ritorno alle origini. La vita pertanto si configura come ritorno.


La vita come ritorno

Nell’immaginario dei popoli, soprattutto dei popoli primitivi, c’è l’idea del ritorno alla terra madre. È un’idea che c’è anche nel Libro della Genesi, al capitolo 3,19: “... fino a quando ritornerai alla terra, perché tu sei polvere e in polvere dovrai ritornare”.


Al fondo di questa immagine sta l’esperienza che dalla terra nascono le piante, cioè dalla terra nasce la fonte della vita, e l’uomo stesso sperimenta che trae vita dalla terra e quando muore ritorna in essa. La terra è madre, dal suo grembo dà la vita e nel suo grembo ti accoglie nuovamente quando la vita se n’e andata.


Nell’esperienza religiosa c’è una trasvalutazione di questa immagine. Il ritorno all’origine non è più semplicemente un ritorno alla terra, ma è un ritorno alla fonte innominata dell’esistenza, che ha il compito di proteggere, di rassicurare, di pacificare. Ma, con l’esperienza di questo desiderio di ritorno è connessa sempre anche una paura, perché ritornare là da dove si è venuti vuol dire lasciare quello che nel percorso vitale ha costituito punto di riferimento. Di più, la paura viene dall’incertezza di ciò che si può trovare, dall’ignoto, che non ha volto. Per noi questa dimensione di paura, si evidenzia in forma particolare di fronte alla morte, che ha un’ambiguità in se stessa, perché è sicuramente ritorno all’origine, ma è abbandono di quello che si ha, e questa origine, nel momento nel quale si configura come meta ultima dell’esistenza, perde le sue connotazioni. Per intenderci, molto banalmente, nel nostro linguaggio - che mutuiamo molte volte anche dalla liturgia - noi proclamiamo che nella morte Dio ha chiamato a sé una persona, per cui noi denominiamo Dio come colui che chiama, come la meta. Nel momento, però, nel quale noi cominciamo a pensare che toccherà a noi, quella denominazione scompare, si crea come un fossato tra ciò che dichiariamo e ciò che percepiamo. Infatti, quella ricerca di stabilità, di sicurezza, di rifugio ha bisogno di un volto, non solo di un volto pensato, ma di un volto percepito, come meritevole della mia consegna.


L’esistenza si conduce quindi all’interno di una tensione tra un bisogno di compiutezza, di pienezza, di incontrare qualcosa di più rispetto a quello che si coglie avente in sé il germe della morte e, d’altra parte, la paura di avviarsi verso quell’incontro.


Due esperienze simboliche anticipano il ritorno definitivo


Questo dinamismo non lo si esperimenta solo in rapporto alla meta ultima, lo si esperimenta anche in rapporto alla fede e alla conversione, due esperienze simboliche che anticipano quel ritorno definitivo.


La fede


Sappiamo molto bene che l’esperienza fondamentale della fede è la consegna di sé che si realizza sempre tra il bisogno e la paura. Il bisogno di trovare sostegno e la paura di non trovarlo come lo si aspetta. L’esperienza ci fa dire che la tensione tra i due aspetti è forte. Anche perché, quando il bisogno è più grande, anche la paura diventa più grande.


Proviamo a ripensare cosa succede in qualche momento della nostra vita. Stiamo sperimentando una fragilità piü grande del solito e ci consegniamo al Signore, ma nel momento in cui ci consegniamo al Signore, noi chiediamo che lui faccia quello che desideriamo, ma lui non lo fa e siccome noi viviamo delle esperienze passate, nei momenti di fragilità, cioè quando la paura è più grande, noi facciamo più fatica a consegnarci. Nel momento del bisogno supremo diventa piü difficoltoso consegnarsi.


Sembra una dialettica insuperabile, ma è così che noi viviamo. Questo dice che la fede comporta sempre - quando si va sotto la crosta dei linguaggi retorici - una dimensione di oscurità e quindi di incertezza. È una illusione quella di pensare che la fede sia un percorso facile. La fede è difficile, quando si vada al di là della retorica con la quale noi rivestiamo la nostra esistenza. Non è un caso che i mistici, le persone che vivono l’esperienza del rapporto con Dio in forma paradigmatica, parlino di notte oscura. L’oscurità viene dal fatto che Dio è Dio, che è quanto dire che Dio non è rinchiudibile dentro la configurazione umana.


La fede autentica supera il processo di proiezione. Se la fede è troppo facile, non regge all’urto dell’esistenza e non è consegna a Dio, ma narcisismo, consegna a se stessi, proiettati in gigantografia al di fuori di sé. La fede supera questo processo di proiezione. E consegna al mistero. E il mistero è mistero!


A questo riguardo bisognerebbe anche essere avvertiti che nel nostro linguaggio si nascondono delle insidie. Quando, infatti, noi usiamo l’immagine di padre per applicarla a Dio, noi evochiamo una dimensione anche emotivamente carica, ma rischiamo di produrre delle attese indebite, perché non necessariamente quel padre protegge dalle fragilità che noi sperimentiamo. Uno dei filosofi neopositivisti del nostro secolo Anthony Flew racconta la parabola dei due esploratori che a un certo punto si trovano in una radura e scoprono un giardino ben coltivato. Uno dichiara: “Qui ci deve essere un giardiniere”; l’altro sostiene: “No, qui non c’è nessun giardiniere” e mettono in atto una serie di prove. Alla fine colui che crede che ci sia un giardiniere dice: “Ma deve essere un giardiniere invisibile, impalpabile”. E l’altro: “ma in che cosa si differenzia questo tuo giardiniere invisibile, impalpabile, da nessun giardiniere...?”.


Flew continua supponendo il caso che ci sia un bambino con un cancro alla gola. Il padre terreno si da da fare in modo impressionante per poterlo aiutare, per poterlo guarire. Il Padre celeste non si fa vedere. Come si fa a dire che c’è un Padre celeste?


Noi potremmo dire che questa è una espressione di ateismo. Non illudiamoci. Questa è l’esperienza della vita. Nel momento nel quale noi denominiamo Dio in un modo, noi ci attendiamo che corrisponda a quel modo che nella vita ordinaria quel termine evoca. Dire che Dio è Padre evoca sicuramente una dimensione grande, ma può creare l’illusione di togliere il mistero. La fede invece è consegnarsi al mistero.


Non si capirebbe l’invocazione angosciosa dei salmisti se non si attraversasse quest’esperienza. E tuttavia proprio questa loro invocazione angosciosa dice che il desiderio di trovare qualcuno come io lo desidero, è legittimo. Questo qualcuno, tuttavia, lo si incontra solo dopo l’attraversamento della notte.


Se noi proviamo a rileggere i salmi di lamento o di angoscia scorgiamo che il salmo inizia normalmente con una denuncia, con una richiesta. È solo dopo aver attraversato questa angoscia che si arriva a consegnarsi di nuovo a Dio. Senza l’attraversamento dell’angoscia non si realizza la consegna. Per questo la fede è una delle esperienze simboliche della consegna definitiva a Dio.


La conversione


La seconda esperienza simbolica è quella della conversione. Il testo paradigmatico è Luca 15,11-32, dove si riporta la parabola del figliol prodigo. Un testo conosciutissimo, dal quale richiamiamo soltanto la dinamica introdotta dal narratore.


Gli elementi che la costituiscono sono tre. Il primo è la percezione di una lontananza: (versetti 15-16). Il secondo, la fiducia della possibilità di essere riaccolto in casa (versetti 17-20). È interessante a questo riguardo osservare come, mentre si parla del rientro in se stesso di questo ragazzo e della sua determinazione, viene usato continuamente l’aggettivo possessivo: “in casa di mio padre”; “mi alzerò e andrò da mio padre”; “e si alzò e si avviò verso la casa di suo padre”. Non sono usati a caso questi aggettivi possessivi. Vogliono indicare che la relazione fondativa non si è perduta. Infine il terzo elemento: la determinazione: “partì e si incamminò verso suo padre”. II percorso che questo ragazzo compie è un percorso a ritroso, per avere la vita (versetto 20).


L’evangelista Luca è un artista. Quando al versetto 18 vuole indicare la decisione del figlio, usa un verbo “mi leverò e andrò da mio padre”. In greco il verbo, usato per indicare 1’alzarsi è quello caratteristico della risurrezione (anastàs). Quindi il ritorno è per avere la vita. Non è più semplicemente il movimento fisico. È il ritornare alla vita, e risorgere! Con questo Luca vuol far capire che solo nella casa del padre si può avere vita. Andarsene era stato un gesto d’uccisione del padre. Una lettura psicoanalitica di questa parabola sottolinea che il figlio che se ne va ha ucciso il padre dentro di sé in nome della propria libertà. Ora riconosce il padre. Ancora una volta va ricordata l’insistenza degli aggettivi possessivi. Non nella solitudine che segue all’uccisione del padre, ma nella relazione e nel riconoscimento della relazione nativa si ha vita. È chiaro, però, che questo implica la negazione di ciò che si è voluto diventare. “Avevo voluto diventare indipendente e ho trovato la morte. Ora riconosco la mia origine”. “Andrò da mio padre” e li esperimento la vita. Il ritorno poi si trasforma in una accoglienza eccedente. Lui chiede di essere un servo e il padre invece mostra cosa vuol dire essere padre. È adesso che questo padre diventa padre, perché è solo ora che il figlio si lascia dare la vita.


Le due esperienze simboliche - quella della fede e quella della conversione - richiedono il coraggio di riconoscere il proprio bisogno. Non è facile ammettere anche a noi stessi il nostro bisogno. Solo chi vive questo coraggio radicale può disporsi alla consegna definitiva, al ritorno. I diversi modi di morire sono preparati dall’esercizio della consegna di sé a Dio ora. Noi possiamo immaginarci come riusciremo a morire, ma lo possiamo già sapere da come riusciamo adesso a realizzare la consegna a Dio. In questo cammino - e qui entra la dimensione cristologia della quaresima - Gesù è la guida.


Gesù guida al ritorno

Quando i discepoli rileggono la loro vicenda con Gesù, sottolineano che Gesù cammina davanti. Indichiamo solo due testi: Luca 19,28; e Giovanni 10,4.


Il primo descrive come 1’ascensione verso Gerusalemme non sia più per incontrare Dio nel tempio, ma per fare fino in fondo la volontà del Padre. Luca 19,18 dice che Gesù si incamminò verso Gerusalemme, è il viaggio definitivo a Gerusalemme per la morte. La meta del cammino di Gesù non è il monte sul quale sta il tempio, ma un altro monte, il Calvario. Qui Gesù consegna il suo spirito nelle mani del Padre. Luca ha un tocco originale. Mentre Matteo e Marco pongono sulle bocca di Gesù l’espressione: “Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato”, Luca pone un’altra espressione: “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito”. Che è una citazione del Salmo 31,6. Nel salmo, però non c’è “Padre”, c’è soltanto: nelle tue mani consegno il mio spirito. Il fatto che qui si introduca Padre vuol dire che il Gesù di Luca percepisce il suo morire come consegna al grembo dal quale è venuto. Il suo morire è affidarsi nelle mani di colui per cui è sempre vissuto. Questa è la consegna ultima, quella che suggella tutta 1’esistenza. I discepoli che vanno dietro a Gesù, vanno con lui verso il Padre.


Il testo di Giovanni ci introduce nell’allegoria del pastore.


Il pastore cammina davanti alle sue pecore e la meta verso la quale le conduce è dove possano trovare pascolo (cf Gv10,9), ma trovare pascolo equivale a trovare vita. Quale vita? Quella presso il Padre: adesso io vado là, ma vado a prepararvi un posto. “E quando sarò andato tornerò e vi prenderò con me perché dove sono io là siate anche voi”. (cf Gv 14,2). Ecco il movimento del ritorno di Gesù che viene a prendere per portare là dove lui è giunto. Gesù conduce fuori. Bisognerebbe prestare attenzione a tutte queste particelle nelle allegorie di Gv 10: conduce fuori: fuori dalle tenebre, fuori dalla schiavitù, fuori dalla morte. Per condurre alla luce, alla libertà, alla vita.


Sono tutte immagini che vogliono sottolineare come nella sequela di Gesù, la relazione con Dio sia la più stretta pensabile. Anche qui, lasciarsi condurre da Gesù non è facile. Implica fidarsi di lui. Questo vuol dire accettare che Dio si manifesti in una forma non pensata. Una delle ragioni, anzi la ragione, per la quale gli ebrei non sono riusciti ad accettare Gesù è precisamente questa, perché Dio si manifestava in lui in una forma non pensata, in una forma originale. Ecco il passaggio nella lotta: accettare che Dio sia Dio. Solo questa è la condizione per avere la vita eterna (cf Gv 6,47), con l’esito della risurrezione all’ultimo giorno.


Seguire Gesù vuol dire sperimentare ora la stabilità che si cerca e non essere poi travolti dalla morte. La fede è già esperienza di meta raggiunta anche se solo nella forma dell’anticipo.


Conclusione


Sei brevissime conseguenze che vogliono suggerire atteggiamenti vitali.


1. Ascoltare il bisogno senza paura. È un bisogno strutturale che si svela attraverso forme congiunturali delle nostre esistenze. Tutti noi percepiamo questo bisogno di stabilità, di rifugio, di sicurezza. Bisogna ascoltarlo, non negarlo.


2. Tenere desta la speranza che questo bisogno potrà trovare esaurimento.


3. Non temere la notte. La notte purifica. Non scappare dalla fatica del buio.


4. Non ascoltare le sirene. È bellissima l’immagine di Odisseo-Ulisse che passando dal luogo delle sirene tappa le orecchie dei suoi compagni di viaggio e lui si fa legare all’albero della nave. Lui vuole ascoltare le sirene, ma non vuole lasciarsi sedurre. Altrimenti non avrebbe mai più raggiunto Itaca, la patria. Odisseo è l’immagine dell’esistenza umana; nel suo itinerario vagabondo verso l’origine.


5. Mantenere la fiducia di essere accolti, senza spaventarsi dei propri limiti.


6. Lasciarsi condurre da Gesù.


(Giacomo Canobbio, In cammino verso la casa del Padre, “Consacrazione e Servizio), marzo 1997, pp. 34-44).