Chiesa pellegrina


 

Chiesa pellegrina

Scrutare i segni dei tempi nuovi


Il Concilio, che già avvertiva questi disagi di civiltà e considerava “dovere permanente della Chiesa scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, essa possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sui senso della vita presente e futura”, in questo “periodo nuovo della storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti”(GS 4), prospettava all’uomo d’oggi un modo nuovo, meno compromesso con le ideologie e sistemi degli uomini e più conforme al Vangelo, di vivere il messaggio di Gesù. La salvezza dell’umanità viene da Dio, secondo quel progetto di liberazione che Egli continua a proporre all’umanità e che si realizza nella nostra storia, lungo i processi, anche drammatici, di un popolo riscattato dalla schiavitù e guidato “nel secolo presente alla ricerca della città futura e permanente” (LG 9).

Una Chiesa che cammina


Nella lettera pastorale a conclusione del Giubileo, Papa Giovanni Paolo II riprende l’immagine conciliare della “Chiesa pellegrina” che ha abbandonato la terra della schiavitù ma non ha raggiunto ancora la terra della promessa. Questo popolo in cammino, però, non è una massa errabonda che sa di essersi liberata dalla schiavitù ma non conosce la meta del suo vagare. Questo è il popolo che Dio stesso ha riscattato e che ora conduce alla meta. Il Pastore del gregge, a differenza di tutti i mercenari, quando vede arrivare il lupo non abbandona le sue pecore ma dà anche la propria vita, se necessario, per difenderle. Ed ora il “Pastore grande delle pecore”, Dio stesso dal volto umano di Gesù, vinti tutti i nemici, anche l’ ultimo nemico che è la morte, guida l’umanità. al suo vero destino, alla patria stabile.

Il vecchio Papa rilancia l’invito con il quale apriva il suo pontificato: “Non abbiate paura! Aprite, spalancate le porte a Cristo”. Ed esorta i cristiani a fare come il primo pescatore - di pesci e di uomini - quando, a reti vuote, obbedì a Gesù che gli ordinava di prendere il largo: “Pietro e i primi compagni si fidarono della parola di Cristo e gettarono le reti. E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci” (NMI 1).


Comunità cristiane che invecchiano senza futuro ringiovaniranno non limitandosi a gestire la loro vecchiaia in modo efficientistico e pragmatico, secondo i parametri che la burocrazia e l’anagrafe impongono. Rimarranno giovani e prolifiche di testimoni appassionati soltanto se si spenderanno nell’annuncio del Vangelo che urge riproporre, se non addirittura “proporre” come primo annuncio, agli stessi cristiani.

Sradicamento come liberazione


Questo modo di pensare spiazza chi di Cristo ha fatto uno stereotipo e del patrimonio di fede un sistema, od una ideologia, una convenzione, una ritualità. Esso suona invece familiare e consolante a chi vive aperto a mondi nuovi. Le difficoltà di comprensione vengono dagli “stanziali”, non dai “nomadi”, dai ben radicati nei propri paesi, non dagli emigranti, dai senza fissa dimora.


Dei migranti spesso si parla elencando le difficoltà che essi incontrano nel mettere radici nell’ambiente che li ospita, in una diversa cultura, in un mondo in cui si produce diversamente, si seguono leggi e consuetudini differenti, e si convive con persone anche dal diverso modo di sentire religioso. Non manca chi li asseconda e pure li blandisce con la sottolineatura esasperata dei problemi che innegabilmente accompagnano il loro inserimento nel contesto della società civile e spesso anche della comunità di fede. Questo è un aspetto della vita di migranti, la faccia problematica di questa condizione. Essere però senza radici presenta anche delle nuove opportunità, addirittura un reale vantaggio, se la condizione del vivere dovesse essere quella della mobilità perpetua. Da cristiano che sono in cammino verso la città futura dovremo tener conto di quest’altra faccia della medaglia. Ce lo insegnano le minoranze, le quali non provano alcun senso di inferiorità nei confronti della maggioranza né si limitano a denunciare le difficoltà di inserimento in una società che vorrebbe omologarle, appiattirle, appunto “radicarle” in tutto e per tutto nell’ambiente. Al contrario, questa diversità diventa connotato di identità. L’essere diversi è bello, anzi è necessario, perché senza alterità non c’è dialogo, scambio, arricchimento, ma solo “la notte in cui tutte le vacche sono grigie”, per dirla con Hegel.


Anche le difficoltà nello sradicarsi dal paese in cui si è nati e si sono vissuti anni importanti dell’esistenza sono state spesso considerale soltanto nel loro aspetto negativo: la perdita dei vecchi valori, tradizioni, usanze, religiosità semplice e diffusa. E pure qui la medaglia presenta due facce. Quel mondo che sogniamo per tanti aspetti non esiste ormai più. Quelle consuetudini e ritualità cui vanno i nostri ricordi e nostalgie sono state ormai riempite di una nuova anima, se non addirittura sacrificate a nuovi riti. Il che vale per l’individuo e la famiglia, per il paese e l’intera società, per la piccola parrocchia come per la stessa Chiesa. Ad un uomo che si sta sempre più secolarizzando - che cioè scambia la patria futura per il saeculum, cioè il mondo a dimensione soltanto terrena oggi dobbiamo proporre la meta vera. Se ci limitassimo ad alleggerirgli la fatica della marcia lo confermeremmo ancor più nella sua condizione di “stanziale”.

Vivere la post-modernità


Migrante non è soltanto chi lascia il paese e si trasfe­risce in un altro mondo di lavoro, cultura, religiosità. Oggi dobbiamo attribuire la qualifica di “migrante “ all’intero primo mondo. E quindi considerare le difficoltà di radicamento nel nuovo Evo non soltanto nei loro aspetti negativi ma anche come nuove opportunità: per la Chiesa e la società degli uomini.


Dopo cinque secoli, con il fallimento dell’uomo moderno, è fìnita quell’età del mondo che pro­metteva, con le sue rivoluzioni sociali ed economiche, libertà, fraternità, uguaglianza, progresso e benessere, ma che anche inscenato le guerre più spaventose che il nostro pianeta abbia mai visto, sterminato scientificamente interi popoli, confezionato bombe atomiche e chimiche, devastato l’ambiente, organizzando uno sviluppo “a forbice”, dove il benessere di pochi aumenta in proporzione all’immiserimento di tutti gli altri, e dove è nato un quarto Mondo, quello a sviluppo bloccato, di una umanità destinata al non sviluppo ed a raccogliere la spazzatura del mondo opulento. Un’età finita con il tramonto del mito del progresso e la fredda constatazione - prima dei papi come Giovanni XXIII con la “Pacem in terris” e Paolo VI con la “Populorum progressio”, poi anche degli organismi internazionali, quali l’ONU, la FAO, l’OMS...) - che lo sviluppo dell’umanità ha imboccato la via della fine.

Fiducia nel futuro


Se Gesù attraversa con noi il lago della storia, l’umanità non può affondare. Proprio animato da questa fede nel Signore della storia, nel discorso in cui indiceva un nuovo concilio della Chiesa universale, Papa Giovanni XXIII prendeva le distanze dagli “uccelli di malaugurio”, da quelle “anime sfiduciate che non vedono altro che tenebre gravare sulla faccia della terra. Noi. invece, amiamo riaffermare tutta la nostra fiducia nel Salvatore nostro, che non si è dipartito dal mondo”.


Un altro vecchio Papa, Giovanni Paolo II, riafferma la stessa convinzione ed esorta la Chiesa a prendere il largo: “È ormai tramontata - scrive nella sua lettera pastorale a conclusione del Giubileo - anche nei Paesi di antica evangelizzazione, la situazione di una ‘società cristiana’, che pur tra le tante debolezze che sempre segnano l’umano, si rifaceva esplicitamente ai valori evangelici. Oggi si deve affrontare con coraggio una situazione che si fa sempre più varia e impegnativa, nel contesto della globalizzazione e del nuovo e mutevo­le intreccio di popoli e culture che lo caratterizza...Non sappiamo quali eventi ci riserverà il millennio che sia ini­ziando, ma abbiamo la certezza che esso resterà salda­mente nelle mani di Cristo” (NMI 40.35).


Ecco come in uno scritto della metà del secondo secolo ci viene testimoniata la sequela di Gesù vissuta in scioltezza, fierezza e naturalezza, da persone libere, seppure incarnate nella patria provvisoria: “I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, ne usano un gergo che si differenzia, ne conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, ne essi aderiscono ad una corrente fìlosofica umana, come fanno gli altri. Vivono in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi al costume del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera... Sono poveri, e fanno ricchi molli; mancano di tutto, e di tutto abbondano (A Diogneto V).


Tanta libertà di movimento e scioltezza di rapporti si spiegano con la convinzione che la vita dell’uomo è un viaggio che non si conclude con la morte ma ha per meta una dimora stabile, dove Gesù, il fratello di cammino e pastore delle nostre anime, ha già riservato a noi il posto e la morte non regna più. “Il mondo passa ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (1 Gv 2, 17) (passim da Leonardo Pezzetta, Chiesa pellegrina, “Servizio Migranti”, 1, 2001, pp. 17-25).