Cristiani: stranieri e pellegrini


 

Cristiani: stranieri e pellegrini


Abramo, dopo aver abbandonato tutta la sua parentela terrestre, seguiva il Verbo, facendosi straniero con il Verbo per diventare concittadino del Verbo (Ireneo di Lione).


Val più essere stranieri che accogliere gli stranieri.(E. Canetti).


Premessa


La Scrittura parla spesso della vita del credente come di un cammino, di una via: nel NT una delle denominazioni che indica i cristiani è «quelli della via» (cf. At 9,2). L’esperienza di fede e di liberazione fondamentale dell’AT è l’esodo, l’uscita da un paese straniero per porsi in cammino verso una terra che sarà donata dal Signore e di cui si resta in attesa mentre si cammina verso di essa. Questo cammino è rischioso e pieno di pericoli e si configura come un cammino attraverso un deserto, attraverso una terra che non solo non è di propria appartenenza, ma è inospitale. Il credente è, potremmo dire, un senza patria. La sua esperienza umana e spirituale avviene proprio in via, lungo il cammino verso la terra promessa, verso il Regno. In particolare, il cristiano si situa nella storia attendendo la venuta del Cristo nella gloria, camminando verso una meta che sarà solo dono del Signore, quel regno di Dio che è comunione piena con Dio per sempre. Questo evento escatologico, la parusia, investe la situazione della chiesa nella storia e la colloca nel mondo quale straniera e pellegrina. Queste condizioni, xenitéia (= stranierità) e paroikía (= peregrinazione), sono costitutive della chiesa, sono criterio discriminante di chiesa e non-chiesa. E devono rientrare nella vita spirituale, nella fede di ogni cristiano. Cercherò dunque di svolgere una riflessione di taglio spirituale su questa dimensione: i cristiani come stranieri e pellegrini. Dimensione che può apparire «strana», inconsueta, ma che non è affatto periferica alla fede cristiana. Anzi, ci è ricordata perfino dalla lex orandi del tempo liturgico dell’Avvento. Dice il post-communio della messa della prima domenica di Avvento:


La partecipazione a questo sacramento che a noi, pellegrini sulla terra rivela il senso cristiano della vita ci sostenga, Signore, nel nostro cammino e ci guidi ai beni eterni. Per Cristo nostro Signore. Amen.


Tra accoglienza degli stranieri ed essere stranieri


Evocare il tema dello «straniero» significa pressoché inevitabilmente, nella società e nella chiesa di oggi, riandare al problema umano e sociale, politico e giuridico degli stranieri immigrati e della loro accoglienza. Questo è un aspetto rilevante e anche drammatico del problema, e sollecita una risposta da parte del cristiano - più che mai nel contesto attuale di nuove migrazioni di popoli, di spostamenti di masse di profughi e di ridisegnazione dei confini geopolitici di diversi stati, nel quale molte società si configurano sempre più come multietniche (1) -, e tuttavia rappresenta solo un aspetto, che rischia di ammortizzare l’inquietante interrogativo che lo straniero costituisce per noi. Tanto più che lo scenario che anche 1’Italia comincia a presentare è quello della contiguità con stranieri radicalmente estranei per lingua, razza, cultura, religione, costumi, etica. Lo straniero appare portatore di un’alterità tale che può infondere paura. E questa paura deve essere presa sul serio, non derisa o sottovalutata come a volte avviene in certi ambienti che pure mostrano grande generosità e solidarietà. Lo sconcerto provocato dalla presenza di uno «straniero» ci è rivelato in molti testi dell’antichità classica greco-romana che descrivono lo straniero facendo ricorso alle categorie della bruttezza e della grandezza spropositata. Scrive Maurizio Bettini facendo riferimento soprattutto a descrizioni presenti nell’Eneide e nel Satyricon: «Quando compare all’orizzonte del “nostro” mondo, lo straniero è un essere incomprensibile. Talora si stenta persino a riconoscergli la caratteristica stessa d’uomo ... Il fatto è che l’aspetto stesso dello straniero, il suo primo e inevitabile impatto, quello visivo, turba chi gli si fa incontro. Quasi certamente il suo volto, i suoi capelli, il colore della sua pelle, la sua taglia, fuoriescono (per eccesso o per difetto) dalla misura che “noi” riteniamo sia quella giusta. Quella misura che H. Hoetink (2) definiva “somatic norm image”, per indicare l’immagine distinta e precisa che ciascuna società, o segmento di società, si fa della forma appropriata, ideale e perfetta dell’apparenza fisica e umana ... Lo straniero non è un uomo. Lo straniero è brutto. In ogni caso è diverso, altre volte appare addirittura “più grande”»(3), dove ingens indica non solo la grandezza spropositata, ma l’inaudito, il «mai visto». Qualcosa di analogo ci è presentato nella biblica descrizione che gli esploratori - uno per ciascuna tribù dei figli d’Israele -, inviati da Mose a fare una ricognizione in terra di Canaan, forniscono degli abitanti di tale terra: «Il paese che abbiamo attraversato per esplorarlo è un paese che divora i suoi abitanti; tutta la gente che vi abbiamo notata e gente di alta statura; vi abbiamo visto i giganti, figli di Anak, della razza dei giganti, di fronte ai quali ei sembrava di essere come locuste e così dovevamo sembrare a loro» (Nm 13,32-33). Coloro che vediamo per la prima volta ei appaiono difformi, più grandi. Dunque l’alterità dello straniero incute timore, turba, viene valutata in termini di bruttezza o di sproporzione, in base ai «propri» parametri di armonia e bellezza a cui viene inconsciamente attribuita una valenza universale a cui evidentemente non possono aspirare. Ma vi è di più. «Quando arriva, lo straniero è un enigma. Non solo è diverso, brutto o più grande. Soprattutto lo straniero non comunica. Improvvisamente si rinchiude in un misterioso alveare, scambia con i compagni segnali incomprensibili e con loro si intende, tant’è vero che subito sciamano verso imprese comuni e imperscrutabili: ma “noi” non capiamo. Lo straniero parla una lingua che non si conosce, e quando muove la testa sembra ce voglia dire “sì” e invece, nella lingua dei suoi gesti, voleva dire “no”. I malintesi si moltiplicano. Prima o poi si arriverà addirittura alla violenza» (4). Sì, la paura che lo straniero ingenera e le reazioni che suscita sono altamente rivelative. II problema dello straniero e della sua accoglienza non è davvero semplicemente logistico o sociologico. E non è neppure solo di ospitalità di colui che per il cristiano è il sacramento del Cristo: «Ero forestiero e mi avete accolto» (Mt 25)! In profondità, lo straniero mi rivela che io stesso sono straniero. La comunione che si instaura tra gli uomini è sempre comunione fra stranieri, a partire dal riconoscimento di questa stranierità che ci accomuna. Un bel dialogo contenuto in un libro di Edmond Jabès dice:


Tu sei lo straniero. E io?

Io sono, per te, lo straniero. E tu?

La stella, sempre, sarà separata dalla stella;

ciò che le ravvicina non essendo che la loro volontà di brillare insieme (5)


E ancora: «Lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero» (6).


Lo straniero pone con acutezza il problema dell’alterità e della comunicazione con 1’altro, e ovviamente, della propria identità: la domanda «Chi è l’altro?» suscitata dall’apparire dello straniero si accompagna subito all’altra domanda: «Chi sono io?». A questa dimensione antropologica fondamentale il cristiano deve poi aggiungere un ulteriore elemento - spirituale - inerente la rivelazione cristiana. Noi cristiani dovremmo chiederci: abbiamo coscienza che noi stessi siamo stranieri? E ne traiamo le conseguenze a livello pratico? In questa prospettiva e alla luce di queste domande emerge chiaramente che una risposta al problema dello straniero immigrato nel senso della pastorale, dell’accoglienza o dell’assistenza ai profughi e doverosa, ma rischia di restare estrinseca: mentre accogliamo lo straniero non possiamo dimenticarci che noi stessi siamo stranieri. Questo infatti è lo statuto del cristiano! La chiesa non è solo quella che accoglie lo straniero, ma lei stessa è straniera e pellegrina. Né, per risolvere il problema, basta dire che tutti gli uomini sono uguali! Questo semplicemente, non è vero! Per la Bibbia noi possiamo arrivare a considerare anche l’altro più distante che ci sia, cioè il nemico, come un fratello, ma mai come uguale. Questo concetto non è di casa nella Bibbia (7). E neanche nell’antropologia. Scrive Claude Lévi-Strauss:


La semplice proclamazione dell’uguaglianza naturale fra tutti gli uomini e della fratellanza che deve unirli senza distinzione di raz­za o di cultura, ha qualcosa di deludente perché trascura una diversità di fatto, che si impone all’osservazione, e di cui non basta dire che non concerne il problema di fondo perché si sia teorica­mente e praticamente autorizzati a fare come se non esistesse (8).


Cioè io devo avvicinarmi all’altro non assorbendolo, o uguagliandolo a me ma rispettandolo in tutta la sua radicale differenza. I diritti umani - questi sì, evidentemente, uguali per tutti - devono essere declinati in un’accoglienza rispettosa della differenza culturale, etica, etnica, religiosa, eccetera. Ma accogliere un altro, non può che significare fare avvenire in sé la differenza dell’altro. Perché la differenza dell’altro è, per il cristiano, portatrice di un seme della parola di Dio, di un riflesso del Lògos, della verità della rivelazione. Il cristiano allora, ben più che uno che accoglie gli altri, è uno che non può fare a meno degli altri, non può stare senza gli altri. L’antica preghiera cristiana «che io non sia mai separato da te, o Dio» deve passare attraverso il non-senza- l’altro (9). E questo a tutti i livelli, in ogni comunità cristiana (guai a fare le cose senza tener conto degli altri!) nei rapporti Intra-ecclesiali come in quelli inter-ecclesiali, ma anche nella società e nella polis, nell’universo degli uomini creati a immagine di Dio. Solo questo criterio può suscitare una comunicazione ispirata alla comunione! La chiesa ha dunque un universalismo in quanto ha una vocazione all’esilio, non al possesso o alla fagocitazione, ma a disperdersi attraverso tutti i popoli senza mai identificarsi con un’etnia o con una cultura (10). Cioè, la chiesa è e resta straniera. Insomma, il cristiano riconosce nel volto dello straniero una rivelazione e una memoria della propria situazione nel mondo. Per lui lo straniero svolge un vero e proprio magistero, e un maestro da ascoltare e da cui imparare!


La categoria di xenitéia, di esilio, sarà poi capitale nei prossimi anni per come si vorrà strutturare la chiesa essendo ormai minoranza in un contesto non cristiano (11) Ed è chiaro che dire stranierità non significa dire fuga dal mondo e dalla storia, né cinismo verso la realtà umane e terrene né disprezzo del mondo, ma piuttosto chiesa umile, povera, aperta, misericordiosa, in stato di conversione e in rapporto di sym-patheía con gli uomini. Chiesa che accetta di imparare la lingua dell’altro piuttosto di imporre una propria lingua, che accetta di non essere capita piuttosto di costringere gli altri a capirla, che accetta di essere misconosciuta e cacciata, piuttosto di presentarsi come portatrice di una verità assoluta e pretendere di essere accolta e protetta... Il Figlio dell’uomo non aveva dove posare il capo (cf. Lc 9,58), è nato in una grotta perché non c’era posto per lui (cf. Lc 2,7), non c’era luogo di accoglienza, e proprio tra i suoi, «nella sua patria», ha fatto 1’esperienza della stranierità e incontrato il rifiuto e il misconoscimento (cf. Mc 6,1-6). E che i cristiani siano degli stranieri, la rivelazione biblica ce lo dice a più riprese. Noi vi torneremo quando cercheremo di approfondire il senso spirituale dell’essere stranieri, ma almeno qualche testo lo ricordo già ora. In 1Pt 1,1 il nome dei cristiani è eklektoì parepídemoi diasporâs, cioè “eletti che soggiornano in modo precario (o: “che sono di passaggio”) nella diaspora”. Sono cristiani che si trovano in minoranza in un mondo pagano. In diversi antichissimi testi cristiani si parla sempre della chiesa che è forestiera a Smirne, Corinto, eccetera. «La chiesa di Dio che dimora come forestiera (paroikoûsa) a Smirne, alla chiesa di Dio che dimora come forestiera a Filomelio e a tutte le comunità, che dimorano da forestiere in ogni luogo» (12) (tre volte il verbo paroikéo). E nella Lettera di Policarpo ai Filippesi: «Policarpo e gli anziani che sono con lui alla chiesa di Dio paroikoûse) a Filippi». È la chiesa locale che è pellegrina in ciascun luogo, chiamata a testimoniare lì la sua patria celeste, la sua dimensione escatologica, 1’attesa della città futura. Troviamo la stessa forte coscienza nel famoso testo dell’A Diogneto:


I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono a una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e ge­nerano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vi­vere. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. Sono ingiuriati e benedico­no; sono maltrattati e onorano. Facendo del bene vengono puni­ti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci per­seguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell’odio (13).


Insomma, prosegue il nostro testo:


I cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo ... vivono come stranieri (paroikoûsin) tra le cose corruttibili attendendo l’incorruttibilità nei cieli (14).


II monachesimo, memoria della «xeniteía»


La categoria della xeniteía-peregrinatio è importantissima nel monachesimo (15) sia quando è stata vissuta come reale spostamento di luogo, espatrio, cambiamento di sede, sia quando è stata vissuta come atteggiamento essenzialmente interiore e spirituale. Il suo fondamento biblico è visto sempre nella chiamata rivolta ad Abramo (Gen 12,1 ss.): si tratta di lasciare la propria terra e la propria famiglia, la parentela e la patria per andare in un’altra terra dove si sarà stranieri: Abraham...exivit nesciens quo iret (Eb 11,8). Questa partenza è segno di obbedienza radicale: non ci si premunisce, ma ci si rimette radicalmente al Signore. Ecco allora che i monaci sono coloro che Abrahae patriarchae exemplum secuti sunt, coloro che exsules facti sunt. Secondo il suo biografo (Zaccaria di Sekóou) la vocazione di Giovanni il Nano si fece ascoltare con queste parole: «Esci dal tuo paese e dalla tua parentela e va’ alla montagna di Natrun che è a Scete ...». Dove appare essere già attivo il tópos letterario di Gen 12,1. I monaci sono un Abramo spirituale, dediti a un interminabile pellegrinaggio. Nelle Vite dei padri a volte la vita dei monaci del deserto egiziano è detta peregrinatio, xeniteía: «Custodisci la tua peregrinazione-stranierità tutti i giorni della tua vita, come il primo giorno in cui ti sei immesso in essa».


La stranierità è legata alla rinuncia e alla sua radicalità. Rinuncia, innanzitutto, ai beni materiali: exi de terra tua è interpretato da Cassiano in riferimento alla rinuncia ai beni materiali, terrestri; ma poi anche ai famigliari: «Chiunque avrà lasciato campi o fratelli o sorelle o madre o padre o moglie o figli o campi per il mio nome riceverà il centuplo e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 11,29). Giovanni Climaco definisce la xeniteía come «l’abbandono senza ritorno [irreversibile] di tutto ciò che nella nostra patria ci impedisce di perseguire il fine della pietà» (16). La stranierità si vuole come visibilizzazione di una scelta senza ritorno, del taglio di un cordone ombelicale. E infatti implica la rottura, il distacco dalla famiglia: Peregrini dicuntur quia eorum parentes ignorantur. Per Gerolamo «è impossibile essere pienamente monaco nella propria patria, nella propria terra»“. La stranierità è l’allontanamento da una madre, da una terra natale protettiva e rassicurante, dove si è stimati, magari onorati, dove si ha già qui e ora una consolazione. In fondo la stranierità anche umanamente, inizia con l’uscita da un seno materno; o con la morte della madre. Mi ha sempre molto colpito il fatto che il libro di Camus, Lo straniero, inizi con la morte della madre. E così mi colpisce sempre il Sal 87, un salmo escatologico che canta il ritrovarsi come fratelli da parte di tutti i popoli stranieri rappresentandolo come il ritorno a un seno materno:


Raab e Babilonia, Palestina, Tiro, Etiopia tutti là sono nati.

«Madre Sion» dirà l’uomo e l’uomo è nato in essa.

Il Signore scriverà nel registro dei popoli «Là costui è nato».

Ed essi danzeranno cantando: «Sono in te tutte le mie sorgenti».


Il monaco, senza disprezzi e cinismi, è chiamato a operare questo distacco per affrontare il rischio della libertà, in vista del radicamento nella nuova comunità per l’inizio di una vita nuova. II cambiamento di luogo vuol essere segno di un cambiamento di vita. E il monaco, con il suo sradicamento, vuol epifanizzare l’essere nuova creatura, rigenerato, anticipando qui il modo di vita escatologico. E il celibato rientra nella stranierità, con la sua valenza escatologica, di rimando al Regno, alla patria celeste. E interessante un passo di Abba Isaia che unisce abbandono dei genitori e rinuncia a formarsi una famiglia in un’unica esperienza di stranierità: «Se ti sei ritirato lontano dalla tua famiglia e sei diventato straniero a causa di Dio, non permettere che penetri in te la nostalgia e la seduzione del loro ricordo: quando sei seduto nella tua cella non lasciarti andare a ricordi nostalgici dei tuoi, di tuo padre, di tua madre, di tuo fratello, di tua sorella, né al pensiero di figli o al desiderio di una donna, tutte realtà che hai abbandonato».


Il monachesimo come peregrinatio è vita di povertà: si manca di ciò che in patria, a casa propria, si avrebbe sempre a disposizione; si rinuncia a trasformare in bisogno ogni istinto e a ritenere di dover soddisfare ogni bisogno (o preteso tale) che si presenti, e così si impara a desiderare, a porre una distanza fra sé e la realtà esterna e gli altri.


Il monachesimo come peregrinatio è vita precaria, senza sicurezze, perché in essa si desidera l’unica vera patria, quella celeste: «Il mondo presente è una peregrinazione; l’abitazione è ciò che deve venire dopo» (Esichio di Gerusalemme). La precarietà di questa vita è alveo in cui nasce la preghiera, come affidamento a Colui che solo è fedele e saldo.


Il monachesimo ricorda che quaggiù non si ha dimora permanente: ci si attenda e così si mostra di attendere una patria conformemente a ciò che dice Paolo: «La nostra cittadinanza è nei cieli» (Fil 3,20). Ma anche nella vita monastica si rischia il riformarsi di attaccamenti, abitudini, agi, consolazioni che impediscono la piena libertà, sono zavorra che rende difficoltoso il cammino, la peregrinatio. Occorre pertanto rinnovare le rotture, i distacchi. Occorre crescere nella povertà e nello spogliamento. Amma Sincletica diceva: «noi ci siamo consegnate all’esilio». Xeniteía e marginalità, decentramento, da viversi anche, quando è il momento, rispetto al- la chiesa, rispetto a un mondo ecclesiastico che a volte, dimentico della matrice evangelica, si mondanizza e si installa nel mondo come in una patria. La xeniteía è allora spazio critico, silenziosa contestazione, protesta serena, ma ferma, che ricorda le esigenze del vangelo. La profezia, del resto, abbisogna di xeniteía . Non ha forse detto Gesù: «Nessun profeta è disprezzato se non in patria, tra i suoi parenti, a casa sua» (Mc 6,4)? Non basta emettere giudizi negativi o invettive «contro ...» per essere profetici: ci sono infatti giudizi e condanne che sono omologati, che sono ormai resi inoffensivi dal fatto che trovano amplissimo consenso. Essi pongono in terreno sicuro, non straniero, e sono afferenti non alla profezia - sempre scomoda e scomodante -, ma alla pigrizia e alla scontentezza, o, al massimo, al buon senso.


In questa dimensione di xeniteía il monachesimo può creare una parola altra, che non ripeta i luoghi comuni teologici o ecclesiastici; può divenire spazio di libertà e di parresia, e perciò di incontro e di riconoscimento reciproco tra diversi.


La storia del monachesimo mostra che si sono verificate forme (di xeniteía paradossali: per evitare la notorietà e la fama Massimo Kausokalyba si spostava costantemente bruciando la capanna in cui precedentemente dimorava (18); si ricorda anche il caso dell’uomo e della donna che vivevano asceticamente, avendo rinunciato a tutti i beni, e nell’itineranza, lui vestito da saltimbanco e lei da prostituta, per celare la fedeltà alla preghiera e alla continenza; inoltre i folli in Cristo che fingono la follia fino a essere disprezzati, maltrattati, scacciati dai paesi e dalle chiese, divenendo memoria vivente, nella loro marginalizzazione, del Cristo che è stato giudicato «fuori di sé», «pazzo», «indemoniato» dalla famiglia e dalle istituzioni religiose (Mc 3,20-30). E a volte solo lo scandalo, il paradosso, il gesto estremo, può onorare adeguatamente il vangelo (20). E infine la xeniteía monastica è un fuggire la fama, i riconoscimenti: Ama nesciri! È 1’incognito, la vita nascosta in Dio:, apòkryphos bíos, umbratilis vita, abscondita vita, amàrtyros bios (cioè «vita senza testimoni»). Una vita che esige solitudine, ritiro, silenzio, spogliazione di sé: si espatria per espropriarsi di sé. Il Cristo uscito dal Padre non si è forse svuotato, alienato, impoverito, reso straniero alla forma di Dio, fino a essere uomo? Il Verbo si è fatto carne: ci può essere maggiore estraniamento? La parola, caratterizzata nell’AT da potenza, eternità, stabilità, si fa carne, cioè fragilità, debolezza, caducità. Anzi, il Figlio di Dio non si fa solo uomo, ma anche schiavo, e raggiunge il culmine dell’estraniamento da Dio nella morte di croce, nella quale appare anche estraneo agli uomini come il Servo, il cui volto era così sfigurato da non aver alcuna parvenza umana (cf. Is 52,14). Eppure in questa radicale stranierità si verifica la massima comunicazione e comunione. Certo la xeniteía esige equilibrio: il rischio dei monaci girovaghi, sarabaiti, che vivono alle spalle degli altri, che non lavorano, è condannato nella regola di Benedetto; l’altro rischio è quello gnostico del disprezzo del mondo che fa della xeniteía la via di accesso all’evasione. La stranierità è memoria del Cristo e di questi crocifisso! Al cuore della xeniteía c’è sempre il crocifisso, il Dio estraniatosi nell’uomo e nell’uomo fattosi obbediente fino alla morte di croce, la morte dello schiavo. Il tutto ordinato al disegno di divinizzazione dell’uomo, di ritrovamento della piena comunione dell’uomo con Dio. Ma ciò che il monachesimo ha voluto ricordare agli uomini e alla chiesa è una dimensione che nella sua accezione spirituale è connessa alla conversione. E dunque propria di ogni cristiano.


L’esistenza umana come esperienza di stranierità


a) La santità di questo secolo. L’emblematicità di Charles de Foucauld


La stranierità si oppone all’esibizionismo dominante; essa afferma il primato dell’essere sull’apparire, è gelosa custode della libertà e dell’autenticità dell’esperienza umana e spirituale. «Non voler passare per santo prima di esserlo ma anzitutto diventalo, affinché poi lo si dica con verità (21). Mi sembra di notevole importanza il fatto che alcuni dei più significativi santi di questo secolo abbiano vissuto un modello di santità nascosta, senza testimoni: Dietrich Bonhoeffer tra i condannati a morte in un campo di concentramento, Silvano in un monastero dell’Athos, Teresina nel cuore del suo carmelo, Charles de Foucauld tra le sabbie del deserto nella straniera terra in mezzo ai tuareg, nel mondo islamico. Le loro vite furono una testimonianza che non ebbe testimoni, ma che sviluppo una grande forza di eloquenza. Non si tratta tanto di un modello di santità sociale, come affermatosi nel secolo scorso, ma che ha fatto emergere un’autenticità della persona nella tragedia umana, una verità dell’uomo in quanto tale nella miseria dei tempi e delle situazioni, che ha vissuto un senso là dove c’era l’agonia del senso: la santità di chi muore ucciso da un beduino di quindici anni nel deserto in modo assurdo, senza motivo; o di chi cade vittima della follia nazista nei campi di concentramento... Forse per questo, queste vite profetiche trovano delle voci laiche che in questo se­colo si accostano ad esse denunciando uno smarrimento di senso, una stranierità dell’uomo a se stesso, una viscerale angoscia spirituale. Potremmo parlare, a questo proposito e in senso lato, di profezia laica.


b) Le voci della cultura


Si tratta di voci della letteratura, della poesia, della filosofia, delle scienze umane di questo secolo che ci pongono di fronte a una dimensione profonda e interiore della stranierità, connessa all’uomo. Pensiamo, in ambito filosofico, all’esistenzialismo, oppure, in ambito letterario, anche soltanto a quella figura in cui forse va riconosciuto il maggiore cantore in questo secolo dell’estraneità dell’uomo a se stesso: Fernando Pessoa. È noto tra 1’altro che, quando morì, nel 1935, era un perfetto sconosciuto come letterato nel suo stesso paese, il Portogallo. Egli non solo visse la sua produzione letteraria nascostamente, dietro la banalità di una vita da impiegato in ditte di import-export, ma nella sua opera fece lievitare la sua riflessione fino a farla divenire canto della condizione umana: «In tutti i luoghi della vita, in ogni situazione e in ogni convivenza sono sempre stato un estraneo ... sono sempre stato ritenuto una persona di fuori»; il dramma dell’uomo e il suo essere «esiliato dagli altri», e la scoperta di uno «spazio fra sé e sé», e la percezione di «essere sconosciuto a se stesso» (22). Ma poi è soprattutto la psicanalisi che ha fatto scoprire questa dimensione all’uomo. C’è in noi un «inconscio», un lato oscuro, che si sottrae alla nostra presa e che ci rende non pienamente trasparenti a noi stessi: si tratta di una dimensione che è in noi, che dunque ci è familiare, ma che costituisce un’inquietante stranezza in noi (23). La scoperta che abbiamo ormai acquisito è che noi siamo anche enigma. André Malraux ha scritto che il secolo XX ha rappresentato la scoperta dei demoni che sono in noi, delle profondità oscure, dei daímones che ci abitano e il secolo successivo dovrà segnare il ritorno degli dei. Ebbene, questa enigmaticità avvolge tutti i rapporti: di me con me, di me con gli altri, di me con il creato, dell’uomo con la donna, dell’uomo con Dio. C’è dunque la coscienza di un enigma, di un’oscurità in noi: sappiamo di non sapere, di non poter sapere pienamente. Lì inizia forse la sapienza, da questo interrogarsi nuovamente, da questo pensare. Ciò che è più proprio dell’uomo è porre un interrogativo su di sé, ma già questo dice che l’uomo è il primo straniero a sé. La stranierità ci abita! E questa coscienza di enigmaticità, di profondità insondabili (si pensi al terrificante mistero dell’abisso di perversione e di «perfezione» raggiunto dal male in questo secolo), rende più drammatica la conoscenza di sé, la domanda che l’uomo sempre si è posto e sempre si dovrà porre se vuole divenire un uomo, se vuole umanizzarsi. Infatti «non conduce vita umana colui che non si interroga su se stesso» (Platone). E la domanda è unica, anche se articolata in tre specificazioni: Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? E in profondità si tratta di una domanda che verte sull’esistenza, sulla nascita, sul morire. È a partire dalla morte di un amico che Agostino nelle Confessioni riconosce di essere diventato un grave interrogativo per se stesso, un difficile problema ai suoi stessi occhi: Factus eram ipse mihi magna quaestio (24). La morte, del resto, che è la nostra proprietà più originaria e intima (nessuno ce la può togliere), è anche contemporaneamente ciò che ci è più estraneo, financo nemico (25). E in questo consiste la sua enigmaticità che ci rimanda alla enigmaticità della nostra vita (26). Mi fermo qui, ma su questo sfondo di interrogazioni si staglierà la risposta cristiana!


c) L’esperienza e l’osservazione psicologica


La vita, la cultura, iniziano con il riconoscimento della stranierità. Prendiamo il bambino. Il bambino che nasce è già «alterato», cioè destinato, aperto all’incontro con l’altro, perché in quell’incontro e apertura si stabilirà la sua identità psicologica. E l’atteggiamento iniziale è di rigetto, di rifiuto dell’altro, di paura. Riconoscere l’altro è già uscire dolorosamente dalla simbiosi protettrice con la madre, simbiosi necessaria agli inizi della vita proprio perché il bambino sopravviva, ma che non può restare in eterno altrimenti diviene un handicap insormontabile. Quante volte ci si avvicina anche a bambini non più piccolissimi ed essi, appena percepiscono l’estraneo, l’«altro», piangono, hanno paura, si rifugiano tra le braccia e sul seno della madre. Ebbene, dalla fase iniziale di fusione con la madre il bambino evolve con un distacco doloroso, con un rigetto, potremmo dire, con la percezione che sua madre è straniera. La madre parla con il padre, si occupa di altre cose, il bambino sente un abbandono e verso la madre prova amore-odio, urla (e l’urlo che precede il linguaggio), ha crisi di rabbia, picchia...; insomma, la madre - che il bambino percepisce non essere sua proprietà esclusiva, non coincidente con lui, differente, altra, straniera - costringe il bambino stesso a immaginare un’altra relazione, a uno sforzo psicologico. Iniziando a rappresentarla come altra da sé, cioè come straniera, egli inizia a camminare sulla via della propria autonomia e identità. Ma questa esperienza di stranierità è capitale, è all’origine dell’esistenza (27).


« Xeniteía » e «paroikía»: aspetti rivelativi e spirituali


a) Il vocabolario


Scrive il teologo Romano Guardini: «Per me stesso io non sono solo evidente, ma anche strano, enigmatico, anzi sconosciuto: al punto che possono accadere cose come queste: un giorno guardo allo specchio e m’interrogo straniato - quant’è rivelatrice la parola «straniato» -, toccato da estraneità, respinto da estraneità: atten­zione! Estraneità tra me e la mia stessa immagine (28). La parola «straniato» è rivelatrice! Il vocabolo greco xénos ha una doppia valenza, ha una dicotomia peculiare: indica lo straniero, l’estraneo, dunque anche una potenziale minaccia, un potenziale nemico, ma designa anche l’amico, l’ospite. Indica qualcosa di familiare e di strano, di amicale e di estraneo al tempo stesso. Il verbo xenízo significa «sembrar strano», «stupire», «sorprendere» (cf. 1Pt 4,4.12), ma anche «accogliere», «ospitare», dimorare come ospite (At 10,6. 18.23.32; 21,16; 28,7). In ebraico il termine zar indica, soprattutto nei profeti del VII-VI secolo (cf. Ger 30,8; 51,51; Ez 7,21; 31,12; Abd 11; ecc.), lo straniero in senso etnico e politico, in forte con­trapposizione con Israele e con connotazioni dispregiative. È lo straniero che si identifica con il nemico, con lo ºar («avversario», «oppressore»), e da cui occorre stare lontani. La zarà è la donna straniera da cui occorre guardarsi per difendersi dalle contaminazioni idolatriche di cui e portatrice (Pr 2,16; 7,5). Significato assai analogo (eccetto Is 53,3.6 dove ha valenza positiva) riveste anche il vocabolo nekhar (e ben-nekhar) nella maggioranza dei casi. Il termine nokri contiene anch’esso, il più delle volte una sfumatura negativa nell’indicare lo straniero da cui occorre distinguersi (Dt 17,15) o qualcuno o qualcosa che è estraneo (Sof 1,8; Ger 2,21). Il vocabolo gher designa invece lo «straniero residente», l’«immigrato»: «Nell’AT il gher ha una posizione intermedia tra l’autoctono (ezrach) e lo straniero (nokhri). Egli vive tra un popolo che non fa parte del suo stesso sangue e ciò gli causa una certa mancanza di quella protezione e di quei privilegi che in genere derivano dalla parentela di sangue e dall’essere nati nel posto. La sua condizione e i suoi privilegi dipendono da quel tipo di ospitalità che tanta parte ha nella cultura orientale sin dai tempi più remoti» (29). Se in alcuni testi dell’AT (soprattutto Dt) i gherim sono i profughi del regno del Nord rifugiatisi nel regno di Giuda dopo il 721 a.C., negli altri passi essi sono degli stranieri, dei non-Israeliti che, lasciata la propria terra per svariati motivi, hanno cercato rifugio in un paese straniero dove, se ciò sarà loro consentito, intendono stabilirsi e risiedere anche definitivamente. La posizione del toshav, «avventizio», «residente senza pieni diritti», e analoga a quella del gher. Spesso i due termini sono uniti a formare un’endiadi, gher toshav, «in cui il temine gher indica i rapporti dell’emigrante-residente con la comunità religioso-cultuale di Israele, mentre con toshav si vorrebbe indicare la stessa persona, all’interno della comunità d’Israele, ma nel suo status economico e sociale» (30). La figura del gher si è venuta progressivamente modificando e accostando sempre più a quella dell’autoctono, dell’Israelita, soprattutto dal punto di vista religioso, come dimostra la traduzione prosélytos con cui la LXX ha reso l’ebraico gher. Dunque all’origine «il gher era un forestiero residente in Israele o in una delle tribù e, come tale, posto sotto la protezione di JHWH (codice dell’alleanza); più tardi, nel Dt, gode insieme con la vedova e 1’orfano di un particolare tratta­mento, e ciò per un motivo che si richiama alla storia della salvezza: Israele stesso è stato una volta gher. Infine la tradizione sacerdotale, imponendogli particolari prescrizioni, fa praticamente del forestiero un membro della comunità» (31).


Ma a noi interessa soprattutto l’espressione di 1Pt 2,11: pároikoi kai parepídemoi, binomio che nell’AT (ovviamente secondo la versione greca dei LXX) si trova ancora due volte (Gen 23,4 e Sal 39 [38],13) come traduzione dell’ebraico gher wetoshav.


Pároikos è colui che risiede all’estero. Nell’AT (LXX) designa spesso i patriarchi (Abramo in Egitto: Gen 12,10; o in Canaan: Gen 17,8; Abramo e Isacco, poi Giacobbe a Ebron: Gen 35,27). Parepídemos è colui che vive temporaneamente in terra straniera. Nell’AT (LXX) è di nuovo applicato ai patriarchi (Gen 23,4; Sa139 [38],13). Noi ci siamo attenuti alla traduzione usuale dell’espressione di 1Pt 2,11, «stranieri e pellegrini», benché nel nostro linguaggio «pellegrini» abbia un significato specifico e diverso rispetto a ciò che parepídemoi indica in 1Pt(32). Questo per evitare il ricorso a espressioni parafrastiche e per salvaguardare un aspetto spiritualmente fecondo insito nell’etimologia di peregrinus: l’idea cioè del viaggio, del cammino in terre lontane (peregre, «fuori dall’abitato», «attraverso i campi»).


b) Il Dio degli stranieri, il Dio che si fa straniero


JHWH si rivela ai figli d’Israele in terra straniera, diviene il loro Dio quando sono stranieri e schiavi in Egitto. È il Dio degli stranieri che impone a Israele di agire verso gli stranieri residenti presso di lui come fece Dio con loro: «Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu 1’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio, che vi ho fatti uscire dal paese d’Egitto» (Lv 19,33-34). Dio lo si individua in quel gruppo di stranieri-schiavi: Dio è con questi stranieri-schiavi, Dio sceglie la marginalità, il «di fuori». Anche sulla terra promessa Israele resta ospite-forestiero: «La terra è mia e voi siete presso di me come stranieri e inquilini» (Lv 25,23). Soprattutto i patriarchi sono sempre visti come stranieri e pellegrini (Gen 23,4: Abramo); al Faraone che gli chiede l’età Giacobbe risponde: «Centotrent’anni di vita errabonda» (Gen 47,9). E Dio è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio di questi stranieri e pellegrini. Ma nei patriarchi Israele vede prefigurata la propria natura. Il popolo di Israele, l’ebreo, è memoria di un’alterità, di una stranierità che è riflesso dell’elezione divina, è testimonianza della presenza divina. Dunque l’espressione pároikoi kai parepídemoi indica un tratto dell’esperienza di fede: la fede pone in un rapporto con il tempo e lo spazio segnato dalla signoria di Dio, dal dono di Dio. Entrare in questa dimensione significa riconoscere che il tempo e lo spazio sono dono, non possesso, cioè memoriale di un essere noi accolti da Dio: il tempo che ci è dato, così come la terra, lo spazio, l’habitat che ci è dato, sono segno dell’accoglienza che Dio fa a noi. Lui ci dà lo spazio e il tempo! Stranierà è aver coscienza di questo dono e confessare la signoria di Dio. Questo senso di essere stranieri e pellegrini davanti al Signore, in relazione a lui, è espresso da una splendida preghiera di David: «Chi sono io e chi è il mio popolo, per essere in grado di offrirti tutto questo spontaneamente? Ora, tutto proviene da te; noi siamo stranieri davanti a te e pellegrini come tutti i nostri padri. Come un’ombra sono i nostri giorni sulla terra e non c’è speranza» (1Cr 29,14-15). Dalla percezione della brevità della vita si passa poi, nella Scrittura, al senso della città futura, della patria celeste: «Per fede Abramo ... soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera ...» (Eb 11,9); «Nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra» (Eb 11,13).


Ma vorrei sottolineare che il rivelarsi di Dio è un estraniarsi di Dio a se stesso, è 1’entrare in un esilio da parte di Dio fino a incontrare e accettare la sofferenza: il Dio che si rivela nell’AT e il Dio che si compromette con la storia, che è con Israele nei suoi esili e nelle sue sofferenze, che «conosce le sofferenze di Israele» (cf. Es 3,7), cioè le com-patisce, le condivide, le partecipa. È l’esperienza che Israele fa di Dio e anche quella di «un forestiero nel paese, come un viandante che passa la notte» (Ger 14,8), come un pellegrino che condivide la stranierità del suo popolo. L’esperienza dei patriarchi è di seminomadismo ed è a loro che si lega Dio, poi si rivela agli ebrei stranieri in Egitto e li guida nell’esodo, nella peregrinatio nel deserto; al tempo dell’esilio a Babilonia segue i deportati, nell’incarnazione assume l’umanità, la mortalità, ed è in questa sua radicale stranierità se che può essere riconosciuto dall’uomo. La stranierità appare come condizione di riconoscimento e di comunione. Dio si è fatto uomo perché l’uomo possa diventare Dio, direbbero i padri orientali. È Dio colui che si è fatto straniero: il versetto salmico «Io sono straniero sulla terra» (Sal 119,19) era interpretato da R. Baruk (nipote del Baal Shem Tov) in riferimento a Dio stesso: lui è il vero straniero sulla terra. Dio dunque ci raggiunge quale straniero, ma proprio mentre ci raggiunge non si lascia comprendere, trattenere, e ci rimanda a una ricerca, a un cammino, a una comunione nell’alterità, non a un possesso. Nell’alterità dello straniero c’è un’eco, un riflesso del volto dell’Altro, quell’Altro che come forestiero ci visita e come forestiero si sottrae a noi. E mentre riconosciamo la presenza elusiva del Signore risorto dobbiamo anche chiederci: chi può dire di conoscere pienamente ed esaustivamente l’altro uomo? Il Cristo crocifisso e risorto che cammina con i due di Emmaus è il forestiero: Tu solus peregrinus es (paroikeîs) in Jerusalem? (Lc 24,18). Ma non solo il Risorto appare come il forestiero! Tutta la vita del Cristo lo mostra tale! La rivelazione di Dio in Cristo è rivelazione nella stranierità di Cristo. Anzi, nel quarto vangelo la stranierità di Gesù appare come «categoria di rivelazione» (33). Se lo straniero è definito dalla sua origine e dalla sua lingua, il Cristo giovanneo è colui di cui i suoi interlocutori non sanno «da dove» venga (cf. Gv 9,29): egli infatti è «da Dio» (Gv 16,30), viene «dal Padre» (16,28), «dall’alto» (8,23), «non da questo mondo» (8,23), ma «dal cielo» (3,31). Inoltre egli interpella così i suoi avversari: «Perché non comprendete il mio linguaggio?» (8,43). Secondo il quarto vangelo per conoscere Gesù occorre coglierlo come straniero, dove però la stranierità è definita non in base a parametri etnici ma teologici: il salto da fare per conoscere Gesù è il salto della fede. La fede è l’ambito in cui la stranierità di Gesù da elemento di incomprensione diviene occasione di incontro e spazio di riconoscimento: «Il Verbo venne tra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto, a quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1,11-13). Il Cristo ha vissuto le sfaccettature simboliche dell’esperienza della stranierità che è appunto categoria non semplicemente sociologica, ma evocativa, portatrice di significati e rimandi simbolici estremamente pregnanti: alla nascita di Gesù non c’è posto per lui nell’«albergo» e subito egli si trova collocato «fuori», nella povertà, nella marginalità nella sua vita non aveva dove posare il capo, vive l’itineranza, conosce l’allontanamento dalla famiglia, l’ostilità del clan famigliare che lo giudica fuori di sé; vive il celibato, incontra 1’inimicizia e l’opposizione di parte almeno delle autorità giudaiche: sacerdoti, sadducei, parte dei farisei. Di più viene incompreso anche dai suoi: chi è Gesù? E questa la domanda con cui egli stesso ha interpellato in modo drastico i suoi discepoli: «Voi, chi dite che io sia?» (Mc 8,29). E la conoscenza di lui, che porta Pietro a confessarlo come Messia, è dono divino: è il Padre che lo ha rivelato a Pietro (Mt 16,16-17). Gesù viene misconosciuto, disprezzato, ma nella trasfigurazione viene confermato da Dio nella sua missione: ma anche la trasfigurazione è evento che lo mostra straniero, en etéra morphê («l’aspetto del suo volto divenne altro»: Lc 9,29), con volto luminoso, vesti splendenti, cioè appartenente al mondo di Dio, veniente dal mondo di Dio. Dalla trasfigurazione si passa poi allo sfiguramento del Getsemani e del Calvario dove Gesù è come il Servo il cui corpo è vilipeso e svergognato, non ha apparenza né bellezza per attirare lo sguardo (cf. Is 53,2-3) ... Ci si copre la faccia davanti al Servo (Is 53,3), si scuote la testa di fronte al Crocifisso (Mt 27,39), non se ne sostiene la visione. E il Crocifisso vive la più tragica esperienza di estraniamento: sulla croce egli appare abbandonato da Dio. Sulla croce egli è visibilizzato come fuori da Dio, fuori dalla salvezza, non solo fuori dalla società civile e rigettato dall’istituzione religiosa. Eppure è proprio in questa vergogna, in questa estrema onta che il cristiano è chiamato a seguire il suo Signore: «Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città. Usciamo dunque anche noi dall’accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio, perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura» (Eb 13,12-14). Questa è 1’esperienza di fede di Mosè (Eb 11,24-27), di Abramo (Eb 11,8-10), di Paolo (Rm 9,1 ss.). Qui appare dove si colloca il fondamento della stranierità del cristiano.


c) Stranierità del cristiano come vita in Cristo


Il battesimo ci espropria di noi per farci vivere in Cristo. Vi è qui una dimensione anche interiore, di pellegrinaggio interiore, necessaria per far emergere l’homo absconditus cordis che è in noi (1Pt 3,4). «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20): questo è il decentramento di sé a favore dell’io di Cristo. Senza questo estraniamento a sé per lasciarsi illuminare dal volto di Cristo non c’è possibilità di trasfigurazione. Nella trasfigurazione il volto del Cristo arriva a risplendere della gloria di Dio: il Cristo dà un corpo e un volto a Dio e Dio abita il corpo del Cristo e manifesta la propria gloria sul suo volto. È questa la comunione nello Spirito, nella quale il Padre e il Figlio, Dio e l’uomo, nella loro alterità si incontrano, si riconoscono e vivono nell’amore. La vita trinitaria appare così come alterità composta in comunione. Se il battesimo è illuminazione del cristiano, la trasfigurazione ne è il destino di partecipazione alla luce di Dio: la bellezza della trasfigurazione è promessa di una beatitudine eterna. Ma è l’intera vita del cristiano che è sottomessa al governo e alle leggi celesti («il nostro políteuma è nei cieli»: Fi13,20), cioè al vangelo; è questa vita che già nell’oggi può con la sua santità, esprimere la bellezza della vita a cui Dio chiama i cristiani e a cui destina ogni uomo (cf. Fi13,20-21). Questo aspetto di bellezza della vita cristiana è sottolineato dalla Prima lettera di Pietro che ricorda lo statuto di stranieri e pellegrini dei cristiani (1Pt 1,17; 2,11): essi sono in mezzo ai non-credenti come minoranza e la loro testimonianza, fatta con dolcezza e mitezza (1Pt 3,15-16), deve concretamente tradursi in una condotta bella (1Pt 2,12) e santa (1Pt 1,15-16). Bellezza che deve manifestarsi nelle relazioni, affinché la chiesa divenga un luogo di vita fraterna reale, e soprattutto uno spazio di dispiegamento di umanità, un luogo di libertà e non di paura, di dialogo e non di monologo o di mutismo. Bellezza dunque degli spazi e dei luoghi, delle vite e delle esistenze: la relativizzazione dello spazio e del tempo a Cristo a cui conducono la paroikía e la parepidemía, Così come il vivere spazio e tempo come dono, impegna a farsi responsabili della loro bellezza; o, se vogliamo, a fare della bellezza la responsabilià del cristiano: bellezza che è simpatia con gli uomini, sobrietà e povertà, trasparenza e limpidezza della vita personale che si nutre di lotta contro gli idoli. Pietro lo ricorda: il peregrinante deve astenersi dai piaceri carnali che fan guerra all’anima (cf. 1Pt 2,11). La bellezza della sua condotta consiste anche in questo. E questa bellezza diviene promessa di beatitudine per l’umanità intera. La bellezza è sempre una promessa di felicità e dunque è rimando escatologico (3,12). Questa bellezza il pellegrino-forestiero la declina come comunione che non diviene accaparramento, possesso, assorbimento... Questa bellezza è passaggio dal consumo alla comunione. Di questa bellezza fa parte il desiderio di essere con il Signore, la nostalgia di Dio inscritta nel nostro corpo: «Finché abitiamo nel corpo siamo in esilio lontano dal Signore» (2Cor 5,6). Sì, camminando in paese straniero si esercita il desiderio, si impara a desiderare la patria, a orientare a Dio il desiderio, il pensiero, l’amore. Davvero, il cammino di stranierità e peregrinazione di fronte al Signore che viene è cammino di trasfigurazione!


d) Dalla stranierità alla comunione


La coscienza del Dio che si è rivelato a noi facendosi “altro” e straniero» nel Cristo (quel Cristo che verrà alla fine dei tempi come un “ladro”,come “ non conosciuto” e “inatteso”) ci porta discernere le sue tracce negli «altri» e a vivere con equilibrio le situazioni di alterità e stranierità in cui siamo immersi. Perché tentazioni che abbiamo verso lo straniero, di assorbimento o di omologazione, oppure di rigetto e di uccisione, noi credenti le proviamo anche in tutte le altre relazioni:


- con il creato: dove ci situiamo tra panteismo e devastazione dell’ambiente;

- con l’altro sesso: fra transessualità e cosificazione dell’altro;

- con Dio: tra fusione e idolatria (Dio a propria immagine).


La stranierità trova allora una sua configurazione spirituale cristiana: le domande «Chi sono?» «Dove vado?» trovano una risposta cristiana. Ed è la preghiera cristiana, ed eminentemente la preghiera che il Cristo stesso ci ha insegnato, il Padre nostro, che orienta la risposta a queste domande:


Dio è Padre

io sono un peccatore

chiamato alla comunione con Dio.


Si tratta di accettare i limiti di spazio e di tempo insiti nella propria creaturalità e di cogliere la propria limitatezza in Cristo. Il limite di essere preceduto (il passato; il Padre e il padre), di essere accompagnato (il presente; gli altri), il limite che ci sta davanti (il futuro; la morte e il Regno).


Il genitore, l’altro, la morte: questi tre elementi, che più che mai segnano la nostra identità, ci fanno anche sapere che noi siamo umanamente degli stranieri; detti elementi diventano, in Cristo, gli strumenti della nostra trasfigurazione per una vita di comunione qui e ora. In Cristo, per fede, mi so preceduto dal Dio Padre e Creatore, animato dal suo Spirito che mi guida nella speranza verso la santificazione nel Regno, reso capace di amare come lui ci ha amati. La vita di stranieri e pellegrini è dunque la forma della vita di fede, di speranza, di carità.


Conclusione


Agostino, commentando il Sa1 64,2 (65,2 secondo la numerazione ebraica) esorta:


Carissimi, desideriamo con amore la città a cui apparteniamo! E se vi chiedete: come potrà nascere in noi l’amore per la nostra città, di cui ci eravamo dimenticati nel lungo esilio? Sappiate che proprio per questo il Padre nostro ci ha inviato delle lettere: Dio ci ha dato le Scritture. Per tali lettere rinasce in noi il desiderio di tornare in patria (34).


Che tutti i cristiani, grazie all’assiduità con le Scritture, possano imparare a desiderare la patria celeste e a vivere nell’oggi storico, in questo mondo, quali stranieri e pellegrini, senza evasioni, senza esenzioni e senza idolatrie. E riconoscendo in ogni uomo un compagno di cammino!


(Luciano Manicardi, monaco di Bose)


Note


(1)L’essenzialità e irrinunciabilità della risposta di accoglienza e di solidarietà da parte dei cristiani di fronte al problema degli immigrati e dei profughi è mostrata dal fatto che su di essa si gioca la stessa concezione cristiana di Dio: «Come respingere lo straniero e continuare a pregare il Dio che “rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà il pane e il vestito” (Dt 10,18)? Come affrontare il giudice giusto che ci chiederà conto: “Ero forestiero e mi avete ospitato” (Mt 25,43)? O che ci ordina di seguire l’esempio del samaritano (Lc 10,25-37) Che si china su un estraneo per soccorrerlo e per salvarlo?» (J. O. Beozzo, «Gli immigranti poveri. In pellegrinaggio verso un’esistenza più umana», in Concilium 4 [1996], p. 110). Su questo tema rinvio al denso e ricco studio di E. Bianchi, «L’accoglienza dello straniero nella Bibbia», in People on the Move 25 (1996), pp. 11-34.

(2) H. Hoetink, The Two Variants in Caribbean Race Relations, London 1967.

(3) M. Bettini, «Nostalgici e indiscreti», in Lo straniero, ovvero l’identità culturale a confronto, a cura di M. Bettini, Bari 1992, pp. 8-9.

(4) Ibidem, p. 11.

(5) E. Jabès, Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato, Milano 1991, p. 19.

(6) Ibidem, p. 13.

(7) Cf. S. Allievi, «Immagini dell’altro: dal riconoscimento alla reciprocità», in Servitium 77 (1991), pp. 85-93.

(8) R C. Lévi-Strauss, Razm e storia e altri studi di antropologia, Torino 1967, p. 106.

( 9) M. de Certeau, Mai senza l’altro, Bose 1993.

(10) Cf. J. Moingt, «Une théologie de I’exile», in Centre Thomas-More, Michel de Certeau ou la différence chrétienne, sous la direction de C. Geffre, Paris 1991, pp. 131-156.

(11)Su questo si veda l’editoriale di E. Bianchi che apre il nr. 28 del 1993 (pp. 3-7) della rivista Parola, Spirito e Vita, numero monografico intitolato: «Chiesa straniera e pellegrina».

(12) Martirio di Policarpo, Prologo.

(13) Ad Diognetum V, 1-17.

(14) Ibidem VI,3.8.

(15) Per i riferimenti contenuti in questo paragrafo cf. soprattutto A. Guillaumont, «Le dépaysement comme forme d’ascèse dans le monachisme ancien», in A. Guillaumont, Aux origines du monachisme chrétien, Bellefontaine 1979, pp. 89-116.

(16) Scala Paradisi 3.

(17) Epistolae XIV, 7.

(18) Cf. «Massimo Kausokalyba. Vita scritta da Teofane metropolita di Peritheorion», in I Padri esicasti, L’amore della quiete. L’esicasmo bizantino tra il XIII e il XV secolo, a cura di A. Rigo, Bose 1993, pp. 99-119.

(19) Narrato da Giovanni di Efeso nelle Vite dei santi orientali: cf. A. Guillaumont, «Le dépaysement comme forme d’ascèse», p. 106.

(20) Cf. E. Bianchi, «La sapienza della croce nei folli in Cristo», in Parola, Spirito e Vita 18 (1988), pp. 235-253.

(21) Regula Benedicti.

(22) Rinvio a F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, Milano 1993(12 ed.), da cui sono tratte le citazioni.

(23) II riferimento è al celebre lavoro di Sigmund Freud, Das Unheimliche, del 1919.

(24) Conf. IV,4,9.

(25) E. Jüngel, Morte, Brescia 1972.

(26) A. Gesche, «Le croyant et l’énigme», in La Foi et le Temps 4 (1991), pp. 293-306.

(27) Cf. J. Kristeva, Étrangers à nous-mêmes, Paris 1991.

(28) R. Guardini, Accettare se stessi, Brescia 1993, p. 9.

(29) D. Kellermann, “gûr, ger gerût me gûrîm”, in G. Botterweck-H. Rinnigren, Grande lessico dell’Antico Testamento I. Brescia 1988, col 2008.

(30) I. Cardellini, “Stranieri e immigrati residenti in una sintesi di teologia storico-biblica”, in Rivista Biblica Italiana 2 (1992), p. 151.

(31) R. Martin-Achad, “gur, dimorare come forestiero”, in Dizionario teologico dell’Antico Testamento I. Torino 1978, col 357.

(32) E. Bosetti propone di tradurre con due termini equivalenti “stranieri e forestieri”: “I cristiani come stranieri nella prima lettera di Pietro”, in Associazione biblica Italiana, Lo “straniero” nella Bibbia, a cura di I. Cardellini, Bologna 1996 pp. 317-334.

(33). L. Cilia, “Gesù straniero tra i suoi nel vangelo di Giovanni” in ibidem, pp. 233-250.

(34) Enarr. in Ps. 64,2;cf. S. Agostino, Esposizioni sui Salmi II, a cura di V. Tarulli, Roma 1970, pp. 458-459.