Cultura della reciprocità


 

Cultura della reciprocità


Il processo di integrazione della realtà economica, sociale, culturale dell’Europa, impone una riflessione quotidianamente sempre più attenta ai cristiani, specialmente dopo il grande avvenimento dell’Assemblea ecumenica del maggio scorso a Basilea, che ha riunito rappresentanti di tutte le chiese europee: essi hanno manifestato la volontà di infondere un rinnovato vigore nella presenza de cristiani nella vita del continente.


Tale processo, come viene osservato da più parti, richiede un rilevante mutamento culturale, adeguato alla civiltà di tipo nuovo che si va un po’ alla volta delineando. Quale contributo spetta ai cristiani in questa fase di grandi cambiamenti? Ne abbiamo parlato col prof. Piero Coda dell’Università del Laterano, che ha partecipato in qualità di teologo all’Assemblea di Basilea.


Prof. Coda, l’Europa è il continente che più a lungo ha convissuto col messaggio evangelico e con la chiesa ma la sua odierna fisionomia, per molti aspetti, è tutt’altro che evangelica: come si spiega questo fatto?


«Da un lato, è dal cuore de messaggio cristiano che si sono sprigionati i valori antropologici, etici culturali e sociali che definiscono la civiltà dell’Europa e che le hanno permesso di offrire, pur tra innegabili ombre ed errori, un contributo fondamentale alla crescita dell’umanità. Cosi è stato per la dignità della persona umana e i suoi inalienabili diritti, per lo sviluppo della demo­crazia moderna, per la concezione della storia come teatro della libertà dell’uomo chiamato a realizzare il disegno di Dio su di sé e sul creato intero, per la nascita stessa della scienza e della tecnica, per lo sguardo nuovo sulla natura vista come creazione di Dio».


Ma dall’altro lato...


«Dall’altro lato l’Europa è proprio il continente che più di ogni altro “ha esportato la guerra”, come ha recentemente scritto Giovanni Paolo II nella sua Lettera per l’anniversario dell’inizio della seconda guerra mondiale. Ha esportato cioè una cultura fortemente impregnata da uno spiri­to di violenza: una logica di potenza e di sfruttamento nel modo di conce­pire e attuare lo sviluppo dell’econo­mia e le leggi dell’azione politica, il colonialismo, il disprezzo della dignità umana e delle altre culture, una logica di asservimento e distruzione della natura, in uno spirito decisamente antitetico al messaggio evangelico».


Quale posizione assume la chiesa di fronte a questa eredità contraddittoria?


«La chiesa si sente interpellata sulla “qualità” - per dir cosi - dell’evangelizzazione dell’Europa che essa ha realizzato nel passato, per cui avverte un forte invito a una coerenza più trasparente e radicale col messaggio evangelico di cui è custode. Ma avverte anche come proprio dovere quello di offrire degli indirizzi e delle prospettive che orientino il futuro della cultura e della società europea in modo più consono alla verità e al bene dell’uomo. È il compito “profetico” che spinge la chiesa a lanciare grandi e impegnative sfide, lasciando alla competenza dei politici la necessaria opera della mediazione concreta e storica.


«E oggi la chiesa propone all’Europa una nuova logica culturale, sociale e religiosa, che si può forse riassumere nel concetto di “pace”: se ieri questo continente ha esporta­to la guerra, sostiene Giovanni Paolo II, “oggi gli spetta di essere artefice di pace”. Usando il linguaggio del filosofo Lévinas, si potrebbe dire che l’Europa ha oggi bisogno di riscoprire l’altro”, di lasciarsi interpellare dal volto di ogni “altro”: su questa base si può risuscitare e consolidare una nuova responsabilità etica, richiesta dalle sfide che ci attendono».


Sono molti ad usare, in questi anni, il concetto di “pace”, talvolta attribuendogli significati molto diversi. Cosa caratterizza la proposta cristiana?


«Ci sono alcune idee-forza che i cristiani hanno maturato. Nell’assemblea di Basilea si è espressa quella che potremmo chiamare la “coscienza comune” dei cristiani d’Europa: è vero che le tradizioni ecclesiali, etniche, culturali e sociali sono molte e differenti, ma la radice comune sulla quale tutte s’innestano è il vangelo di Cristo, incarnato nell’una e molteplice tradizione storico-culturale dell’Europa. Dopo secoli di incomprensioni, lotte o indifferenza reciproca, è nata e viene condivisa da strati sempre più larghi di persone questa comune autocoscienza cristiana dell’Europa; essa costituisce la prima, fondamentale via intrapresa dalla chiesa per la costruzione di una cultura europea della pace. In tal modo il cristianesimo può assolvere al compito di dare un”anima” al continente, pur nel rigoroso rispetto di chi, in Europa, non si riconosce in questa ispirazione cristiana».


Lei ha parlato di unità della radice, ma anche di molteplicità delle tradizioni europee: in quale modo il valore della molteplicità può integrarsi nella nuova Europa?


«Occorre realizzare una cultura in cui la diversità (di tradizione, di razza, di nazionalità) non sia più vista e vissuta secondo la logica violenta della conflittualità dialettica, ma secondo la logica pacifica del reciproco arricchimento. In questo periodo, studiosi di grande impegno e levatura (penso a H. Buchheim, R. Dahrendoff, e all’intervento del cardinal Poupard nel recente convegno svolto a Castelgandolfo alla presenza di Giovanni Paolo II su “L’Europa e la società civile”), hanno riconosciuto che la specificità della cultura e della società europea è forse da riconoscere nell’affermarsi del prin­cipio della libertà e del pluralismo.


«E qui si esprime un’altra idea-forza del cristianesimo, che non intende il pluralismo come relativi­smo, cioè come rifiuto di qualsiasi punto di incontro, ma lo comprende e vive all’interno di una cultura della reciprocità, di una ricerca dell’unità nel rispetto della distinzione. Dovremmo considerare il significato culturale e sociale del fatto che il Dio di Gesù Cristo non è un solitario monolite, ma l’Uno costituito dalla reciprocità dei Tre distinti, Padre, Figlio e Spirito Santo: e non è proprio di qui che discende la specificità della cultura europea? In tal senso, non basta passare da una cultura che affermava esclusivamente la propria identità, a una “cultura della diversità”, del rispetto di ogni identità: occorre mettere in rapporto queste identità, inserirle in un circuito di arricchente reciprocità».


Questa, mi sembra, è l’idea-forza centrale. Quali applicazioni concrete può avere nella nostra situazione storica?


«La cultura della reciprocità emerge come un presupposto e una via fondamentali nella costruzione del futuro dell’Europa. Lo dimostra il bisogno - che oggi, sembra, sta diventando realtà - di tornare a respirare coi “due polmoni”, l’Occidente e l’Oriente d’Europa. Ed è reso evidente dalla necessità di integrare gli ingenti movimenti migratori già in atto e che nel futuro cresceranno, ponendo la formidabile sfida di una società multirazziale, multireligiosa e multiculturale.


«Una cultura della reciprocità rimette in discussione, culturalmente e politicamente, il concetto stesso di stato nazionale, spesso idolatrato come qualcosa di intangibile e di non sottoposto ad alcuna istanza superiore. Anche il principio della libertà di scambio, che ha un grande valore, può trovare nella cultura della reciprocità la sua dimensione più giusta, che è quella di rendere possibile la destinazione universale dei beni, un principio morale che la dottrina sociale della chiesa particolarmente sottolinea».


Si può realizzare una cultura di pace senza solidarietà?


«No: anzi, è questa una terza idea-forza nella quale il messaggio cristiano di pace si può concretizzare: ripartire dagli “ultimi”, dai “nuovi poveri” che, come hanno recentemente sostenuto i vescovi italiani nella loro dichiarazione su “L’impegno per l’unità europea”, sono “spesse volte creati o ghettizzati dalle nostre società economicamente avanzate”. Anche l’enciclica Sollicitudo rei socialis, con grande ricchezza di argomenti, ha affermato che l’interdipendenza sociale ed economica deve tradursi nell’atteggiamento morale della solidarietà.


«L’Europa del grande mercato unico nasce nel cuore del mondo sviluppato, e deve vincere la tentazione di trasformarsi in un ulteriore fattore di arricchimento dei ricchi e impoverimento dei poveri. Questo vale anche a livello planetario. Dunque non si deve puntare a costruire un’Europa-fortezza, ma una “comune casa” europea aperta all’orizzonte mondiale dei problemi e pronta al dialogo con le tradizioni umane e culturali dei popoli degli altri continenti. In fondo, la prospettiva di una cultura di pace non può non essere, come diceva il titolo di un recente convegno del Movimento federalista europeo, quella che punta “Dall’unione europea all’unità politica del genere umano”».


Cosa occorre fare perché queste idee non siano utopia ma progetto?


«Ci vuole una grande svolta culturale, una “transizione antropologica” che educhi un “tipo nuovo” di uomo non-violento, capace di progettare il rapporto con sé e con 1’altro (la natura, l’altro uomo, Dio) in termini non conflittuali, ma di reciprocità. Occorre proiettare il comandamento nuovo del Cristo - ama l’altro come te stesso - dal piano personale a quella sociale e planetario, come recentemente ha sostenuto Chiara Lubich invitando ad amare la patria altrui come la propria. È su questo terreno che la fede cristiana - in Europa come nel mondo - può presentarsi oggi al1’appuntamento con la storia dell’ umanità» (Antonio Maria Baggio intervista il teologo Piero Coda , “Città nuova”, 20, 1989, pp.46-48).