Deserto e terra promessa


 

Deserto e terra promessa


Scappando dalla terra d’Egitto, dalla “casa della schiavitù” (Es 13,14), il popolo di Israele sognava di entrare in possesso della terra promessa, della casa della libertà. Invece, si imbatte in un’esperienza di desolazione e di abbandono, di fame e di privazione, di rabbia e di ribellione: l’esperienza del deserto. Il tempo trascorso nel deserto resterà come ricordo incancellabile nella memoria del popolo, spesso considerato in parallelo con la storia dei patriarchi. La storia delle origini e il deserto portano il marchio comune dello sradicamento, dell’estraneità in un paese che non ha le caratteristiche della patria, che non è fertile come il suolo della promessa, il “paese bello e spazioso, dove scorre latte e miele” (Es 3,8). Con una grande differenza, però: Abramo e la sua famiglia sono considerati modelli di fede; la gente del deserto, invece, sarà ricordata per la disobbedienza, per la durezza del cuore, per aver dubitato della presenza di Dio. Come mai la promessa della terra, rivolta ai patriarchi-forestieri e senza terra del libro della Genesi, li conduce ad una fede forte e radicale, mentre la stessa promessa, rivolta agli Israeliti - forestieri senza terra che vagano nel deserto, non produce gli stessi effetti? Anzi, stando ai racconti del libro dell’Esodo, quei quarant’anni vissuti nel deserto stavano quasi per concludersi con l’annientamento del popolo e con la perdita totale della fede! Le tradizioni del deserto hanno certamente un grande rilievo nella storia di Israele. Il deserto non è semplicemente un luogo di passaggio, una distesa sabbiosa e rocciosa che obbligatoriamente bisogna attraversare perché non ci sono scorciatoie verso la terra promessa. Il deserto non è un incidente di percorso, uno sbaglio di rotta nella mappa geografica di Mosè. Il deserto riveste un’importanza fondamentale per chi mette la sua fiducia in Dio. Vediamo in che modo, leggendo il capitolo 16 del libro dell’Esodo.


Questo brano ha una sua completezza: alcuni studiosi l’hanno paragonato al racconto della creazione, soprattutto per il riferimento al settimo giorno, al riposo sabbatico. Il deserto è il luogo senza forma e senza vita per eccellenza, così come “informe e deserta” era la terra all’inizio della creazione (Gen 1,2). Israele sperimenta il deserto anche come luogo di mormorazione e di ribellione, luogo di ostilità e di distruzione. Qui il popolo si scopre vulnerabile e votato alla morte, in una condizione molto più critica di quella in cui hanno vissuto i patriarchi, forestieri ospiti di un paese straniero, ma almeno sicuri di avere cibo in abbondanza. Il deserto non offre alcuna possibilità di sfamarsi. Giustamente il profeta Geremia dirà che il deserto è “una terra non seminata” (lo’ zeru ‘ah Ger 2.2). E la gente dell’esodo sperimenta il deserto non solo come terra non coltivabile e improduttiva, ma addirittura come terra in cui non esiste alcun seme. Per questo tatto qualche esegeta ha sottolineato la stretta correlazione tra la storia dei patriarchi e quella del popolo nel deserto: i nomadi progenitori erano privi di seme ereditario (lo’ nathattah zara Gen 15,3), così come gli Israeliti nel deserto vagavano in una terra senza seme vitale (lo’ zeru ‘ah Ger 2,2). Nelle due storie il tratto comune è la mancanza di zera‘, che significa sia “erede” sia “seme”, cioè la totale esclusione dal futuro, da una prospettiva per l’avvenire, da una qualche speranza. Tuttavia, mentre la storia dei patriarchi si evolve verso la conquista della fede, nella fiducia verso la promessa, la storia del popolo dell’Esodo si dipana tra alti e bassi, tra mormorazione e protesta. Il richiamo alla terra costituisce il motivo di fondo degli avvenimenti: “Fossimo morti per mano del Signore nel paese d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine” (Es 16.3), II contrasto tra i diversi tipi di “terra” che il popolo ha in mente è evidente: il paese d’Egitto, nonostante la schiavitù, offriva una infinità di risorse per riempirsi lo stomaco; invece, il deserto, con la sua promessa di libertà, garantisce soltanto i crampi della fame. E la risposta di Dio capovolge la disperazione del popolo con un “pane che piove dal cielo”, qualitativamente superiore al pane sudato della schiavitù d’Egitto: il vero pane non viene dalla terra, ma dal cielo; il Dio della promessa garantisce un sostentamento che non è frutto di un suolo che produce “spine e cardi” (Gen 3,18), ma che scaturisce da Dio stesso. In altre parole, Israele è stimolato a comprendere se stesso non indipendenza di questo o di quel territorio, ma in stretta simbiosi con il Creatore del cielo e della terra. Infatti, il racconto della sazietà miracolosa, sperimentata dagli Israeliti affamati nel deserto, mette in luce per due volte che la comparsa di un cibo piovuto dal ciclo coincide con la manifestazione della “gloria del Signore” (Es 6,7.10). Non è la terra che produce il cambiamento, ma la presenza del Signore: mentre altri popoli si affidano ai beni che il suolo può produrre, magari sotto una sapiente amministrazione e un adeguato sfruttamento economico del territorio, Israele deve confidare soltanto nella promessa di una terra particolare e nutrirsi di quanto gli offre il Signore della promessa. E i versetti 12-21 presentano i beni della promessa: carne e pane. Ma si tratta di un cibo che non ha niente a che vedere con quello che il popolo aveva conosciuto in Egitto. Là, nella terra dell’organizzazione e degli affari, quei beni favorivano il crescente arricchimento di alcuni e l’impoverimento di altri, mentre nel deserto senza forma e senza vita. senza controllo e senza calcolo, il pane della provvidenza raggiunge tutti nella stessa misura, tanto che “ne raccolsero chi molto chi poco. Si misurò con l’omer: colui che ne aveva preso di più, non ne aveva di troppo, colui che ne aveva preso di meno non ne mancava: avevano raccolto secondo quanto ciascuno poteva mangiarne” (Es 16.17-18).


Pare che il narratore biblico voglia insistere su questa riflessione teologica, assicurando che la fiducia nella promessa della terra è da sola garanzia di successo: ogni tentativo di speculazione, ogni sforzo di controllo e di calcolo, ogni progetto di sicurezza e dì investimento, alla maniera di chi governa un territorio geografico determinato, è destinato al fallimento. Infatti, coloro che, contravvenendo il comando di Mosè, cercano di raccogliere manna in quantità e di accumularla in deposito, si scoprono custodi di un tesoro che imputridisce e genera vermi (Es 16,20). L’esperienza del deserto, dunque, conferma che la stabilità, il radicamento, la conquista della patria, non dipendono da un territorio, da un paese, da un suolo delimitato nei suoi confini: anche il deserto può sfamare. È la presenza del Dio della promessa che garantisce al forestiero il raggiungimento della vera patria: “il Signore tuo Dio è stato con te in questi quaranta anni e non ti è mancato nulla” (Dt 2,7); “il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni” (Dt 8,4) (Gabriele Bentoglio, Il deserto e la terra promessa, “L’Emigrato”, luglio-agosto 1999, pp. 24-25).