Esilio


 

Esilio


L’esperienza dell’esilio, della lontananza dalla patria, è presente fin dalle origini del racconto biblico: Adamo ed Eva sono esiliati dal paradiso, Caino fugge ramingo dopo il fratricidio, i popoli si disperdono lontano da Babele. L’esilio e la prigionia toccano poi più direttamente il popolo ebraico: Giuseppe è venduto come schiavo agli egiziani, Israele - il popolo del Nord - è sottomesso agli assiri nel 722 a.C., Giuda e Gerusalemme sono infine distrutte dai babilonesi nel 586 a.C. Viene poi l’ultimo esilio, apparentemente interminabile, dal 70 d.C. al 1948, anno della rinascita di uno Stato d’Israele nella terra dei padri.


Come già abbiamo visto a proposito del popolo di Dio, anche nell’esperienza dell’esilio ritornano alcune dimensioni fondamentali della vita di Israele: il suo rapporto con il Dio dell’alleanza, con la terra di santità, con gli altri popoli in mezzo ai quali è disperso. Infine, quasi al limite di ogni esperienza vissuta e possibile, si colloca un abisso di orrore indicibile che ha portato oltre l’esilio, in una notte oscura, il popolo ebraico in Europa sotto il dominio nazista: lo sterminio sistematico, la Shoah.


Mentre dall’esilio ci si poteva attendere che “un resto ritornerà”, germoglio santo della redenzione, dalla Shoah questa speranza viene negata in linea di principio.


Possiamo dire che con la
Shoah appare possibile un duplice esito dell’esilio: sia come redenzione (l’esito tradizionale annunciato dai profeti), sia come antiredenzione (l’esito diabolico dell’annichilimento del popolo ebraico).


L’esilio di per sé non distrugge il rapporto fra Dio e il suo popolo, anzi, mentre ne rende più acuta l’esigenza, lo fa maturare, predisponendo alla conversione e alla redenzione. Costringendo a lasciare Gerusalemme, l’esilio fa comprendere, nel dolore, tutta la profondità e il valore spirituale del Santo dei santi e dei sacrifici, cessati con la distruzione del tempio. La Shekinah, la Gloria di Dio, non lascia per questo il popolo, ma va con lui in esilio in mezzo alle nazioni pagane, continuando a preparare così la diffusione universale del messaggio della salvezza rivolto in principio a un solo popolo particolare. Il profeta Ezechiele vede la gloria di Dio presso i deportati in Babilonia, e l’annuncia con queste parole: “Giunsi dai deportati di Tel Aviv, che abitano lungo il canale di Chebar, dove hanno preso dimora [...] ed ecco, la gloria del Signore era là” (Ez 3, 15.23); il profeta descrive anche l’esilio della Shekinah: “La gloria del Signore uscì dalla soglia del tempio” (Ez 10, 18).


E un testo della tradizione successiva aggiunge, come sentenza di R. Shimon ben Jochaj: “Vieni e guarda quanto è caro Israele al Santo, benedetto sia: in ogni luogo in cui essi vennero esiliati la presenza di Dio era con loro” (Meghillot 29a).


Nell’esilio millenario si alzano più struggenti le lamentazioni attribuite a Geremia e le elegie, dense di commozione e di pianto per il tempio distrutto. L’esilio è un costante appello alla conversione dal peccato e alla missione di Israele tra le nazioni pagane.


In
questo senso l’esilio di Israele è un caso tipico per ogni fatto simile della storia. L’esilio infatti è una situazione dolorosa e spesso drammatica, che, in vario modo, tocca tante persone e tanti gruppi sociali. Anche ai nostri giorni i fenomeni dell’emigrazione, delle guerre, delle fughe di intere popolazioni ci coinvolgono tutti.


La risposta esemplare offerta dal popolo ebraico può pertanto essere considerata paradigmatica: nelle situazioni d’esilio scaturisce più intensa la preghiera, matura la coscienza della fraternità, si creano nuovi vincoli e strutture di solidarietà.


Ben diversa è la situazione di quell’aldilà dell’esilio che può rifarsi alla Shoah. L’immensità del martirio del popolo ebraico sembra qui invitarci a un infinito silenzio, dal quale possa scaturire un proposito, un gesto, un grido di perdono a causa del male compiuto. La conversione, dopo la Shoah, è un appello urgente e necessario non per il popolo ebraico in esilio, ma per coloro che hanno concepito e predisposto l’annientamento di questo popolo, e con esso, per assurdo, l’annientamento di Dio stesso, se fosse stato possibile. 


Il paganesimo assoluto e mostruoso è apparso nel centro dell’Europa del ventesimo secolo, dopo duemila anni di annuncio del Vangelo.


Spesso, purtroppo, dobbiamo riconoscere che la dottrina cristiana aveva proposto un “insegnamento del disprezzo” nei confronti dei nostri fratelli ebrei. Dopo la Shoah, dobbiamo sostituirlo con “l’insegnamento del rispetto”, della conoscenza, della stima, dell’amore fraterno.


Dobbiamo anche vigilare attentamente perché i sentimenti del passato non ritornino mai più, né nella chiesa, né nei giovani, né nella società. Abbiamo bisogno anche noi della conversione, la teshuvah, per riprendere insieme il cammino della salvezza. Preghiamo il Signore che ci dia occhi nuovi ed energie rinnovate per questo pellegrinaggio.

Infatti il popolo ebraico, aiutandoci a comprendere il senso di ogni sofferta lontananza dalla patria, ci invita a riflettere su forme particolari di esilio che toccano da vicino il popolo dei cristiani, il popolo di tutti i credenti in Cristo (cattolici, ortodossi, protestanti) e anche il senso di esperienze di esilio per i cattolici, nella loro totalità o in gruppi e aggregazioni diverse.


Vi sono tante vicende storiche che possono essere interpretate come l’esilio da una patria, da una cultura, da un contesto culturale, sociale e anche politico al quale ci si era abituati e anche un po’ come adattati. In questo senso ogni privazione di un radicamento precedente, di una terra sicura sotto i piedi, di un terreno su cui contare, di un palazzo o di una casa spirituale da abitare con tranquillità è una prova, una sofferenza, spesso anche uno strappo doloroso, un trauma.

A esso si può reagire con la rabbia, oppure con una nostalgia rassegnata e passiva, o addirittura con il chiudere gli occhi all’evidenza e non volere che ci sia stato ciò che c’è stato, o volere a tutti i costi il ritorno a ciò che fu.


È possibile invece reagire come i profeti hanno insegnato a Israele: riconoscendo la mano di Dio, lasciandosi purificare dalla prova, cercandone il senso.


Una particolare forma di esilio, di privazione della patria, è quella dell’esilio culturale, dello sfocarsi di evidenze ideologiche che costituivano la tela di fondo su cui esprimere i nostri pensieri, del venir meno di abitudini che sembravano ovvie. Vi sono, sia chiaro, alcune certezze che non verranno mai meno: sono quelle che riguardano l’amore di Dio che è stato diffuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo, l’amore con cui Cristo ci ha amato fino alla morte. Su questo non può esserci dubbio. Qui, come dice san Paolo, “la speranza non delude” (Rm 5, 5). Ma vi sono al contrario giudizi categoriali, abitudini mentali, processi ideologici su cui contavamo, che è bene che talora vengano messi in questione, per cogliere ciò che è essenziale. L’esilio diventa allora uno stimolo per il cammino (Card. Martini).