Estraneità


 

Estraneità


Capita quando si è in un Paese di cui non si conosce la lingua. Può essere che qualcuno ti chieda un’informazione che non sei in grado di dare. Oppure tu abbia bisogno di domandare e non riesca a farti capire. Sono piccole occasioni che ingenerano il sentimento dell’estraneità o della “stranierità”. Questo disagio a volte si avverte anche rimanendo dentro i confini della propria terra. È sempre una questione di linguaggio. Si può parlare la stessa lingua, ma è come se si parlassero lingue diverse quando diverso è il modo di pensare, di giudicare, di definire i valori che contano.


Nel mondo, ma non del mondo


Anche Gesù ha preso in esame il sentimento dell’estraneità, sia pure in una prospettiva capovolta: non come condizione da subire, ma da conquistare. Voleva che i suoi discepoli non dimenticassero di essere «nel mondo», ma non «del mondo». Lo stesso ammonimento rivolge ora a noi, soprattutto nei momenti in cui siamo tentati di sistemarci troppo nel mondo. C’è, dunque, un’estraneità che fa parte della natura stessa del cristiano: è presente nel mondo e, al tempo stesso, assente. È solidale e tuttavia, per certi aspetti, separato. Il cristiano è come se venisse da un Paese lontano e fosse diretto verso un Paese lontano (non è forse vero che la patria è altrove?), custodisce dentro di sé l’anima del nomade e il gusto dell’esodo.


Su questa condizione di estraneità non si può non citare un famoso passo della “Lettera a Diogneto” (primi anni del II secolo): «I cristiani abitano nella propria patria, ma come pellegrini; partecipano alla vita pubblica come cittadini, ma da tutto sono staccati come stranieri; dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo».


L’esperienza dell’esilio


Riecheggiando il grande tema del cristiano come straniero, Jean Sulivan ha scritto: «Ogni uomo in cui è germinata la parola è in esilio».


È chiaro che questa vita di esilio non è facile da affrontare. Ecco perché molti vi rinunciano integrandosi pienamente nel modo di sentire e di agire di tutti. Al di là della pratica religiosa, sarebbe difficile trovare in essi qualcosa di specifico che li distingua da coloro che non hanno più alcun rapporto con la Chiesa.


Altri sentono di dovere difendere le ragioni e le ispirazioni della loro fede, ma vedendo quanto siano ignorate e contraddette entrano facilmente in uno stato di sconforto che può portare a un cedimento della speranza. Sono come quei vecchi che non riuscendo più a capire i tempi nuovi e a farsi capire dalle persone vicine, a un certo punto si sentono pronti a dare le dimissioni dalla vita con espressioni di questo tipo: «Che ci sto ancora a fare a questo mondo? Non sarebbe meglio se me ne andassi, visto che è cosi difficile restare?».


Il cristiano come irregolare


C’è un modo evangelico di vivere l’estraneità, non rinunciatario, ma attivo e reattivo. Chi ha la passione per il vangelo non può che sentire la fierezza e la bellezza di coltivare uno spirito trasgressivo, anarchico, ribelle nei confronti di ciò che Giovanni chiama “mondo “ e che oggi si potrebbe definire “il sistema”.


Come si fa a non provare disgusto di fronte a un “sistema” fondato sulla menzogna e sulla corruzione, sugli arrivismi e sui privilegi? A volte verrebbe voglia di gridare: «Ma a te piacciono questi personaggi che oggi sono in circolazione? Non vedi, questi protagonisti della mondanità e del potere, quanto sono spudorati e spregiudicati? Ti piace la stampa come è oggi, la Tv-spazzatura, questo mondo mercantile che se ti mette in mano un oggetto ti saccheggia l’anima? E se non ti piace che cosa aspetti a dire di no?».


Pensate: se ogni cristiano, invece di lasciarsi intruppare, scegliesse di diventare un “irregolare” dentro il sistema... Qui non è questione di essere di destra o di sinistra, ma semplicemente di essere dalla parte del Vangelo. E se tutta la Chiesa fosse nel mondo il segno di un ordine nuovo e la contestazione dell’esistente... Ma bisognerebbe che la Chiesa, tutte le volte che riceve apprezzamenti dal “sistema” (“la Chiesa è utile”; “la Chiesa serve e va sostenuta”) si mettesse in allarme e si domandasse in che cosa abbia sbagliato. Perché è sempre facile la tentazione di servire gli idoli piuttosto del Vangelo.


Sofferenza e gioia del cristiano come forestiero


Ho letto da qualche parte che ogni uomo si porta dentro una malinconia più o meno grande. E in ciascuno la qualità di questo sentimento è diversa. Il problema è di non sbagliarsi sulle ragioni della propria tristezza.


Ora la tristezza che nasce dal sentirsi soli senza avere nessuno (a volte neppure fra coloro che professano la stessa fede) che sia disposto a capire e a condividere la passione della estraneità nei confronti di questo “mondo “, è uno dei sentimenti che meglio caratterizzano la propria fedeltà al vangelo.


È un sentimento peraltro compensato dalla certezza che da qualche parte ci sono ancora degli “irregolari” che tengono sempre vivo il rapporto con un “altrove” sottratto alle bassezze e alle volgarità dei tempi presenti. Questi “irregolari” incarnano la figura del forestiero su cui Hans Weissen ci ha lasciato questa stupenda suggestione:


«II forestiero ha negli occhi la luce di mari lontani

vorrebbe aprire nuovi orizzonti

ha nei capelli il soffio di venti forti

vorrebbe dissipare nebbie e foschie

ha nella bocca il sapore di suoni ignoti

vorrebbe narrare vicende seducenti

ha nel cuore il ricordo di volti amati

vorrebbe offrire mani amiche».


Perché non coltivare il sogno evangelico di essere anche noi tra questi forestieri che conoscono e sanno insegnare la strada che porta verso il Regno? (Luigi Pozzoli, Partecipi e stranieri, “Il Gallo”, marzo 1996, p. 2).