Frontiere


 

Frontiere


L’esistenza umana si pone e si ripropone in una specie di paradosso insormontabile in quanto originario. Per essere reale, e non solo immaginaria, questa esistenza deve riconoscere i suoi limiti, assumerli accettandoli e rivendicandoli. Ma per essere umana questa stessa esistenza deve incessantemente rifiutare tali limiti e tentare di vivere oltrepassandoli. L’uomo non è né un angelo né una bestia, diceva Pascal. Ma questa natura intermedia che egli assegnava all’uomo è realmente vivibile solo se l’uomo coniuga nello stesso atto la sua animalità e la sua spiritualità, se persiste nel fare l’angelo senza mai rinunciare alla bestia, se accetta di esistere come un’anima corporea o un corpo spirituale. È qui che ritroviamo l’originario e la pienezza dell’esistenza umana, in quest’anima corporea che il linguaggio non riesce mai a nominare. Perché qui l’attributo corporea è sostantivo del sostantivo anima, e nello stesso tempo questo sostantivo è aggettivo dell’aggettivo. L’anima è corpo e il corpo è anima, indissolubilmente e sostanzialmente. Questa unità è come il sigillo della finitudine di ogni esistenza umana. Questa esistenza, in quanto è spirituale, e finita, in quanto è corporea. Non bisogna intendere questa affermazione nel senso del dualismo classico, per il quale l’anima è nel corpo come un contenuto in un contenente, come l’acqua nel vaso che le impedisce di spandersi. Al contrario, come afferma Tommaso d’Aquino in un magnifico testo, «l’anima si trova nel corpo come contenente, non come da esso contenuta». Non è l’anima o lo spirito ad essere nel corpo, ma è il corpo a essere nell’anima. E l’anima, per esistere, fa sorgere da sé il corpo e si manifesta allora come un’anima umana. Il corpo è il limite dell’anima, è la prima frontiera che permette all’uomo di situarsi in un’esistenza concreta e mondana, e che deve superare per andare al mondo e agli altri. Il corpo è dunque questa impotenza ontologica che ha lo spirito umano a porsi come spirito puro e assoluto. E, in quanto umano, il corpo è una qualità essenziale dell’anima.


La prima frontiera


L’esperienza originaria del corpo


Per ritrovare l’esperienza originaria del corpo bisogna rinunciare alla dialettica dualistica del corpo e dello spirito o dell’anima, dell’esteriore e dell’interiore, che ha funzionato in tutte le pratiche culturali e nelle riflessioni filosofiche o teologiche, per ritrovare un’esperienza dimenticata, quella della totalità originaria che noi costituiamo. Lo spirito e il corpo non sono due realtà di cui saremmo composti in un’unità difficile da mantenere. Il corpo e lo spirito non sono che due parole, due modi di parlare dell’uomo. E se si insiste a conservare queste parole, occorre precisare che usandole alternativamente si intende affermare che l’uomo, per esistere umanamente, deve dispiegarsi in due direzioni: deve diventare il mondo diventando il corpo e deve diventare se stesso diventando spirito, e il primo divenire condiziona il secondo.


L’uomo appare ed è interamente un corpo, in quanto viene al mondo e se ne appropria. Ed egli appare ed è interamente uno spirito o un’anima poiché in questo stesso movimento di appropriazione del mondo egli si manifesta come una presenza di sé a sé, una presenza di fronte al mondo. Così l’uomo non esiste mai nella pura identità di sé a sé, ma è sempre mediazione di sé a sé passando per il mondo. Per venire a se stesso l’uomo viene al mondo. E il corpo significa che l’umanità dell’uomo è sempre in questo movimento di andata al mondo e di ritorno a sé, questo passaggio verso altro da sé per diventare ed essere sé. Così l’esilio e la migrazione appaiono come il movimento fondatore dell’umanità, di ogni uomo che deve abbandonare e lasciare il suo essere per diventare l’ospite del mondo e raccogliersi in tal modo nella pienezza del suo essere riconquistato, in questo movimento che Tommaso d’Aquino chiama “redditio in se completa”, ritorno in se stessi.


Il corpo come limite e come frontiera


Il corpo è dunque nell’anima, e l’anima in quanto essa si dà ad esistere come anima umana, e si manifesta come il limite dell’anima e dello spirito. Occorre intendere bene il senso di limite. Il limite è ciò che determina lo spazio richiesto perché un essere possa esistere come essere del mondo, quale è in se stesso, determinato e limitato. Ma il limite è anche ciò che impedisce a questo essere di andare oltre ciò che è, ciò che fa in modo che egli sia solo ciò che é. La filosofia dirà che il limite, qui il corpo, è il marchio della finitudine dell’essere, il che significa che lo spirito è uno spirito umano. Ma questo limite e questa frontiera sono anche ciò che occorre passare e superare per venire al mondo, perché un uomo si metta a esistere di fronte al mondo. Non appena lo spirito produce il suo corpo, inventa lo spazio, costruisce il mondo in un gesto fondatore, matrice di tutte le architetture del mondo, tanto quell’architettura interiore che si chiama la costruzione della personalità, quanto le architetture dei materiali che abitiamo e che vediamo.


Il corpo è un’architettura originaria, è questo spazio con i suoi limiti e le sue frontiere, i suoi centri vitali, le sue difese e i suoi punti deboli. Certamente dal punto di vista dell’immaginario, ma anche sperimentalmente, il corpo è uno spazio complesso e gerarchizzato che è investito nello stesso tempo dall’interno da parte del soggetto che “lo occupa” e dall’esterno, tramite colui che lo guarda, lo accosta e lo tocca. Il corpo è questo primo e originario territorio d’umanità all’origine di tutti i territori e di tutte le geografie.


È esattamente ciò che avviene quando io vengo al mondo, che sia alla mia nascita o in ciascuno dei miei atti quotidiani. Io vengo nel mondo, mi faccio corpo e in un certo modo sono del mondo. Ma in questo stesso atto io vengo al mondo presentandomi al mondo. Allora non sono del mondo, ma sono di fronte ad esso, gli faccio fronte. Così il corpo è sempre orientato, propone e impone il qui della sua presenza e l’altrove della sua assenza, ciò che gli sta davanti e ciò che gli sta dietro, la sua destra e la sua sinistra: Così, non appena lo spirito si manifesta come corpo, “geometrizza” il mondo, lo percorre “misurandolo” in tutti i sensi, e orienta il mondo orientandosi in esso. Ciò che noi chiamiamo il mondo non è che la proiezione, teoricamente infinita, di fatto sempre limitata, della geografia strutturale del mio corpo, 1’insieme di tutti i percorsi reali e possibili del mio corpo. Così il mondo è sempre il mondo, e nello stesso tempo il mio mondo. Il mondo è il mio corpo, in parte virtuale, e il mio corpo non esiste che occupando il mondo, preoccupandosi di esso, prendendosene cura, e nutrendosi della carne del mondo.


L’uomo migratore in locazione del mondo


L’uomo è dunque un migratore: passa e supera incessantemente le frontiere del suo corpo per andare a ciò che egli non è per divenire se stesso. In questa migrazione l’uomo inventa lo spazio, cioè il luogo della sua presenza, il luogo in cui egli si presenta rappresentandosi. L’avvento dell’uomo a se stesso è quindi avvento dell’uomo al mondo e avvento del mondo a se stesso.


Perciò non si dovrebbe parlare di spazio in generale, che è solo un ambiente vuoto, cioè una parola, ma piuttosto degli spazi dell’uomo, che sono altrettanti modi della sua presenza al mondo. Si possono allora distinguere uno spazio esistenziale, che è la rete a grappolo di tutti i percorsi, e le “locazioni” del mio corpo. Le mie andate e venute nel mondo che faccio mie disegnano una specie di geografia personale che traduce nello spazio “l’incorporazione” del mondo che diventa la carne della mia esistenza. Il mondo diventa allora il mio universo, e questo universo è insieme la traccia lasciata dal mio corpo e dalla mia libertà. Si parlerà poi di spazio astratto per designare la rete più estesa di tutti i possibili del mio corpo. Questo spazio costituisce ad un tempo il limite oggettivo del mio spazio esistenziale reale, ma anche la sua apertura possibile. Esso è come la dilatazione di questo spazio e fa si che io non sia mai prigioniero del mio spazio: io sono qui, ma posso sempre andare ed essere altrove. Questo spazio, che chiamo qui astratto e che forse si dovrebbe chiamare “virtuale” nel senso di “figura della mia potenza”, è come la traccia in filigrana di tutti i miei avvenire. L’altrove è allora il nome di un futuro. Infine questi spazi esistenziale e astratto (o virtuale) sono possibili solo perché io esisto e mi faccio esistere in uno spazio in linea di principio infinito. So bene che esisto sempre in certi limiti e che gli “altrove” che sogno si rivelano sempre all’esperienza come dei “qui” strettamente limitati. Ma, quali che siano questi “qui-altrove” in cui abito, vi è sempre un “altrove” di cui posso sognare. Si dice a volte di qualcuno che «non si trova mai bene da nessuna parte». Il “qui” che abito rinvia sempre a un “dappertutto qui”, a una totalità dello spazio, un infinito dello spazio che il mio corpo investirebbe come presenza totale al mondo.


Così l’uomo è sempre “in locazione” dello spazio, realizza concretamente la sua umanità solo inventando lo spazio come luogo d’essere e d’esistere. Questa “locazione” è sempre una “multilocazione” o “plurilocazione”, l’effettuazione sempre incompiuta del corpo come possibilità concreta di un mondo. E questa “locazione” multiforme non può dispiegarsi che sull’orizzonte sognato di una “omnilocazione” del mondo, nel sogno impossibile ma necessario di abitare la totalità del mondo. Allora il corpo, il mio corpo, dispiegando la sua esistenza, dispiega davanti a sé lo spazio e inventa i suoi luoghi come rifugi e tracce del suo desiderio.


I luoghi dell’uomo


È necessario descrivere questi luoghi dell’uomo in quanto essi ci insegnano le migrazioni fondatrici dell’umanità di ogni uomo(2). Certo, questo luogo è innanzitutto un luogo proprio, uno spazio in cui il mio corpo può dispiegare le sue possibilità, cioè un luogo in cui posso essere me stesso e diventare me stesso. II corpo si raccoglie nei limiti che si dà e che accetta (o che gli vengono dati e imposti), e si afferma come io, come corpo-spirito. Questa “deposizione” del corpo come io va dallo spazio in cui opero intellettualmente, in cui sono spirito, allo spazio in cui non sono che un corpo addormentato nella camera da letto. Ogni volta lo spazio è strutturato in funzione dell’espressione corporale/spirituale che è da esso richiesta. Il luogo è allora come il nome che porto, come il volto che è il mio, è lo spazio limitato che circoscrive la mia identità personale, quella che io mi do delimitandola. Questo luogo dell’identità è come il corpo visibile della persona.


Ma questo luogo che qui abbiamo definito dell’identità è sempre un luogo aperto che rende possibile l’identità dinamica che io sono sempre nell’atto di costituire e di darmi. Perché il “divenire io” è possibile e diventa effettivo solo se l’io non è chiuso e recintato, in un luogo che equivarrebbe a una prigione, se l’io può “passare” all’alterità e incontrare l’altro che io. Così, invece di parlare di “luogo dell’identità” è meglio parlare di “luogo dell’identificazione”, un luogo dai limiti abbastanza fissi e abbastanza mobili, in modo da poter “contenere” l’infinito delle mie identificazioni successive. Così questo luogo dell’identificazione è sempre anche e nello stesso tempo un luogo relazionale, aperto alla possibilità dell’altro che viene a me, e più generalmente al mondo intero. Così la casa è raccoglimento di sé, raccoglimento di sé operato da sé e con sé, ma è anche accoglienza, apertura all’ospite che viene e che io ricevo. In tal senso essa è sempre cosmo, mondo o micromondo, luogo di tutti i luoghi, luogo che riunisce e assembla luoghi diversi da percorrere l’uno dopo l’altro. Si potrebbe facilmente mostrare, nell’analisi dei luoghi più privati come di quelli più pubblici, come in tali luoghi sia attuata questa dialettica dell’identità e della relazione. La camera in cui dormo, il letto in cui riposo, sono i luoghi in cui mi ritiro nella massima solitudine, al riparo dal mondo e dai suoi rumori. Ma sono anche i luoghi in cui faccio l’amore, in cui cioè realizzo la relazione più alta con l’altro effettuando la nascita del mondo. E quando l’altro e il mondo non vi sono presenti fisicamente, tornano ugualmente ad abitare questi luoghi nel sogno o nell’incubo. All’opposto, il luogo più pubblico in cui realizzo il mio essere-con-l’altro richiede, per essere autenticamente un luogo, che io possa sempre esservi e rimanervi me stesso.


In questo luogo proprio, in cui l’uomo si pone e costruisce la sua identità personale, l’apertura e l’obbligo all’altro sono ancora più profondi. In tal luogo, infatti, l’uomo accoglie non solo gli altri uomini e il mondo, ma accoglie e raccoglie tutta la storia dell’umanità. È un luogo storico, un luogo che significa la mia storia e la storia di tutti gli uomini raccogliendone le tracce. Il termine “storico” è qui da intendere nel senso fondamentale che il mio corpo, il corpo di me, è sempre un corpo storico e che il luogo del mio corpo raccoglie spazialmente le tracce di questa storia, anche se solo parzialmente e provvisoriamente. Essendo storico, il luogo è raccolta della totalità di un passato definitivamente trascorso che esiste ormai solo in quel punto aleatorio, passeggero, che è lo stato attuale del luogo. Così il luogo di un uomo fa sempre memoria di questo uomo, e insieme si dà come monumento d’umanità, altrettanto leggibile o indecifrabile di qualsiasi altro monumento.


Possiamo riassumere queste osservazioni dicendo che il luogo è sempre memoria o memoriale, nel senso fondamentale dell’iscrizione spaziale di un passato d’umanità che autorizza, che apre un avvenire d’umanità.


Inventando il luogo, l’uomo inventa un luogo d’essere sé, di divenire-sé, è un luogo d’essere-insieme. Allora può realizzarsi ciò che viene chiamato l’incontro, la comunicazione o la società, cioè una limitazione dello spazio e del tempo e, in questo spazio-tempo, parole, gesti, silenzi. Così, inventando e occupando i loro luoghi, gli uomini disegnano una provvisoria e complessa geografia di umanità diverse e molteplici, distinte e collegate ad un tempo.


La frontiera e il ponte


L’uomo nomade


Ciò è possibile solo perché esistono dei limiti che autorizzano un’identificazione personale o collettiva e perché questi limiti sono continuamente superati in tutti i sensi in un perpetuo e paradossale movimento di appropriazione e di disappropriazione, in un incessante trasporto e scambio di umanità plurali.


Così l’umanità è sempre un’umanità nomade che si raccoglie e si dispiega nei luoghi dell’uomo come un’immensa narrazione, una storia senza fine. E nello stesso modo i racconti scritti, sotto forma di miti e leggende, attraversano e organizzano i gruppi, gli individui e i loro luoghi distinguendoli e al tempo stesso collegandoli, componendo frasi e itinerari.


Allora gli individui e i gruppi si spostano obbedendo a una specie di sintassi spaziale: obbediscono a codici che ordinano e controllano i loro comportamenti, che regolano i mutamenti di spazio ponendo i luoghi in serie lineari o interconnesse. Tali luoghi sono allora collegati tra loro in modo più o meno rigoroso o facile tramite “modalità” che precisano il tipo di passaggio dall’uno all’altro. Sempre però si incontrano limiti, sempre si passano e ripassano frontiere.


L’umanità astratta nelle sue frontiere


Come analizzare questo nomadismo degli uomini, degli individui o dei gruppi, questa pratica dei luoghi e degli spazi umani che sono pratiche di umanità? Occorre dire a questo proposito che per lunghi secoli gli uomini si sono accontentati di andare, di camminare, di occupare i luoghi dividendoseli, a volte contendendoseli. L’umanità ha inventato o seguito traiettorie spontanee o obbligate, dal vicino al lontano che diventa allora vicino. La storia racconta questi itinerari con i loro punti di riferimento, i loro confini, i loro limiti. Essa ci dice come sono stati possibili questi percorsi d’umanità, e ci mostra tutta la catena delle operazioni richieste, in questa avventura ininterrotta di incontri, di guerre e di mescolanze di popolazioni. Così la storia rivela un ordine spontaneo e impensato d’umanità.


Ma la nostra modernità ha un po’ alla volta imposto un rigore e una razionalità nuovi, che si vedono all’opera tanto nella comparsa delle nazionalità quanto nell’inedita attenzione all’individuo e che rientrano in uno spazio giuridico sempre più preciso e delimitato. Si sono progressivamente elaborate e imposte delle carte geografiche d’umanità, che materializzano e autorizzano i percorsi possibili d’umanità, e gli uomini si sono lasciati richiudere in queste geografie astratte.


Un po’ alla volta le umanità degli uomini si sono iscritte e circoscritte in frontiere materiali e spirituali, e ciò facendo si sono solidificate e come fissate, dimenticando di scambiarsi. Allora le frontiere, che erano dei passaggi, sono diventate barriere. Dimenticando i movimenti spontanei della vita, quelle umanità sono diventate astratte, definite e definibili dal diritto del suolo o da quello del sangue.


La frontiera


Nonostante questa evoluzione, anche se l’umanità degli uomini si è barricata dietro a frontiere più o meno ben protette, gli uomini hanno continuato a spostarsi, a emigrare. E i loro itinerari, come le carte che ne costituiscono le astrazioni, sono sempre obbligate a dire e poi a registrare delimitazioni. L’uomo che percorre lo spazio in diversi itinerari lo fonda e articola sempre effettuando operazioni di delimitazione, inventando cioè limiti o frontiere per aree culturali o sociali più o meno estese. Come gli animali, gli uomini delimitano i loro territori o certi territori. Essi compongono continuamente spazi, li verificano, confrontano e spostano le frontiere.


È la suddivisione, la partizione dello spazio che ne fa uno spazio strutturato ed è la determinazione delle frontiere che organizza la spazialità. Senza questa strutturazione lo spazio diventa ostile e inumano: l’individuo o il gruppo regredisce allora verso l’esperienza inquietante e fatalistica di una totalità informe, indistinta, notturna, si trova perso. E soprattutto questo spazio strutturato da limiti (muri, fosso, fiume, foresta, montagna, ecc.) è parlato, è messo in parole, in racconti che diventano giuridici e amministrativi.


La funzione essenziale delle frontiere è di “umanizzare” il nomadismo degli individui e dei gruppi umani, che non possono allora essere paragonati agli animali in transumanza. Le frontiere infatti introducono in questa transumanza animale una regola d’umanità. Esse autorizzano o vietano gli spostamenti, li orientano. Fondano la circolazione e lo scambio d’umanità, nella regola. Ed è per questa ragione che ogni frontiera è sempre associata a un ponte, a un passaggio, che autorizza o vieta la circolazione.


La delimitazione imposta dalla frontiera ha innanzitutto la funzione di autorizzare, di aprire uno spazio, un teatro per l’azione. In questo spazio delimitato i comportamenti sono comandati e autorizzati dallo “ius”, il diritto. Senza questa delimitazione i comportamenti diventano incerti, rischiosi, fatali. Perciò, come dicevano i romani, un luogo è fasto o nefasto, a seconda che offra oppure no all’azione umana questa necessaria rassicurazione dello spazio delimitato. Si può a questo proposito meditare sul rituale romano della dichiarazione di guerra a un popolo straniero, o anche del patto d’alleanza. Questo rito era compiuto da una casta di sacerdoti specializzati, i “fetiales” e consisteva in un cammino in tre tappe. La prima, sul limite della frontiera, ma all’interno del territorio romano, la seconda sulla frontiera stessa, e la terza al di là della frontiera, in territorio straniero. Questo rito aveva lo scopo di rendere lo spazio propizio, fasto, attraverso l’appropriazione e, una volta concluso il rito, la guerra o 1’alleanza potevano aver inizio, in un’umanità rassicurata e rivendicata. Il rito apre lo spazio e dà stabilità alle azioni umane: così lo spazio è detto e raccontato prima di esser stato percorso. Le frontiere aprono un campo che autorizza le pratiche sociali.


Il ponte, o il passaggio della frontiera


Ma ogni frontiera porta in sé una contraddizione significata dal rapporto tra la frontiera, che delimita lo spazio interno e “legittimo”, e il ponte, che permette di superare la frontiera per spingersi in paese straniero, verso l’esterno. La frontiera delimita uno spazio umano solo a condizione di essere possibilmente aperta, altrimenti questo spazio diventa prigione.


La frontiera, che è limite, è dunque anche passaggio. È il problema classico della frontiera: a chi appartiene? Essa è lo spazio che essa delimita, ma è anche l’esteriorità che viene a toccare questo spazio. La frontiera appare allora come una specie di non luogo teorico, e tale contraddizione può essere annullata solo se la frontiera è mediatrice: essa ferma ma fa passare. La separazione è qui comunicazione e la frontiera è articolazione di umanità diverse ma simili, è passaggio, dialogo. E il conflitto si manifesta solo quando la frontiera cessa di svolgere questo ruolo per diventare muro insuperabile.


Il ponte sul fiume che materializza la frontiera tra due paesi collega una riva all’altra. È il ponte che crea le rive e, a ciascuna delle sue entrate, il ponte attira a sé le due rive e i due paesi. Il ponte in un punto del fiume avvicina così le terre e ne fa un mondo amico. Il ponte lascia andare il fiume, lo lascia al suo corso, ma offre agli uomini una via al di sopra del fiume. Lascia andare il fiume, ma nello stesso tempo lo annulla perché da barriera insuperabile il fiume diventa via. Ciò facendo il fiume riunisce tutte le vie in una sola via e fa passare sull’altra riva, verso altre vie. Così il ponte cessa di essere una cosa costruita per diventare un luogo, un posto, un luogo che dà luogo, un posto che fa posto, che crea cioè uno spazio d’incontro per i luoghi che vengono al ponte, un luogo regolato, reso libero, che elimina la chiusura e dunque rende libero. Il ponte svela dunque il vero senso delle rive del fiume. Prima che il ponte esista queste costituivano dei limiti di chiusura. Ciascuna di esse segnava la fine di un paese che ignorava il paese di fronte. Con il ponte le rive costituiscono ancora dei limiti, ma sono dei limiti aperti: liberano un paese aprendolo su un altro paese. Poi è necessario che degli uomini attraversino il ponte, che questo non sia disertato o chiuso. Solo allora il ponte collega le abitazioni degli uomini e delle diverse umanità, che diventano umanità condivise, dunque più ricche e più umane.


Queste affermazioni ci portano a concludere che la frontiera e il ponte segnalano la condizione umana. Gli uomini abitano i luoghi che costruiscono e delimitano ed è questo il solo modo di essere umano degli uomini. E l’uomo senza domicilio, senza fuoco ne luogo, è un uomo che perde in umanità. La casa che costruisco e che dunque abito, il paese in cui vivo sono allora una provocazione alla vita, è un rifiuto della morte, una protesta contro di essa. Così che questa casa divenga una tomba o un posto pubblico, aperto a tutti i venti, che questo paese divenga un campo di concentramento o uno spazio senza fine né limite, è il maggiore pericolo che minaccia costantemente questa casa e questo paese.


Vivere umanamente equivale dunque a fissare limiti, alzare muri, stabilire frontiere. E fare questo è innalzare una libertà, una vita, e coltivare una umanità. Questa regolazione dello spazio è una ‘gestione’, una “sistemazione”, una pacificazione dello spazio e dunque dell’esistenza umana. Vivere umanamente significa lasciar essere il proprio essere, metterlo al sicuro circondandolo della protezione dei limiti che sono insieme i limiti dello spazio e quelli della libertà. Ma questi limiti, queste frontiere che costruiamo sono sempre aperti su un altrove dove possiamo andare e che può venire a noi.


L’obbligo dell’ospitalità


Poiché la frontiera è sempre attraversata da un ponte, poiché è sempre la frontiera che la libertà si dà, gli uomini si trovano sempre obbligati all’ospitalità, all’accoglienza dell’alterità. L’abitazione e il paese sono già di per sé ospitali e il linguaggio popolare non s’inganna parlando di una casa o di un paese accoglienti. La libertà che si dà delle frontiere è la stessa che deve oltrepassarle. Allora chi accoglie e chi è accolto diventano degli ospiti: la stessa parola serve a designare l’uno e l’altro, indicando con ciò che l’ospitalità è inerente ed essenziale all’atto di vivere umanamente.


L’ospitalità è la regola fondamentale dell’umanità dell’uomo, e della sua umanizzazione. Ma questo scambio obbligato d’umanità nell’ospitalità non è indifferenziato. Come l’umanità stessa, l’ospitalità è soggetta alla regola. Quel che si scambia tra gli uomini è il loro “essere-umano” e non la loro mancanza d’essere o la loro carenza d’essere. L’ospitalità è dunque naturalmente esigenza d’umanità, tanto per chi riceve quanto per chi è ricevuto. Essa chiede loro, all’uno e all’altro, di essere umano in misura maggiore e di rinunciare alla loro carenza d’essere, alla loro inumanità. Ogni ospitalità è dunque critica, al di qua di ogni etnocentrismo. Di diritto e di fatto, questa ospitalità è “infinita ‘, è accoglienza del prossimo, dell’amico e del vicino, come del lontano, dello straniero. Essa fa si che colui che mi si avvicina, anche se viene da un capo del mondo, diventa mio prossimo. L’ospitalità mette in atto processi di conoscenza e di riconoscimento reciproci. E in tal senso essa è la forma prima ed ultima del rispetto e dei diritti dell’uomo. In primo luogo in una forma negativa, che consiste nel lasciar esistere l’altro, nel non “togliergli l’aria”, nell’aprire davanti a lui uno spazio perché possa manifestarsi quale egli è. Poi in una forma positiva: il rispetto diventa comunione delle nostre somiglianze e invenzione, al di là delle nostre differenze riconosciute e superate, di uno spazio per vivere-insieme-umanamente.


L’uomo divenuto straniero


I luoghi perduti


Viviamo oggi una situazione relativamente nuova, che richiede da parte nostra un lavoro inedito dell’immaginazione e del pensiero. Le frontiere sembrano cancellarsi eppure esse sono aspramente rivendicate contro gli stranieri che premono alle nostre porte. Gli individui si perdono nella massa e nei movimenti di massa rivendicando tuttavia la loro indipendenza e la loro originalità. Gli spazi per l’incontro, cioè per l’essere sociale dell’uomo, diventano sempre più limitati, sempre più introvabili. Le città sono urbanizzate e colonizzate, gli appartamenti sono standardizzati, vie e piazze sono vie di passaggio dove non deve succedere nulla e la stessa campagna è inquadrata e colonizzata dal turismo e dalle attività connesse.


Come gli spazi, anche i tempi diventano introvabili. Il tempo della vita è scandito dall’orario di lavoro, dall’agenda, dall’orologio e non è più possibile perder tempo, perché «il tempo è denaro». E anche il tempo libero o liberato è un tempo vuoto, dunque noioso che ci si affretta a riempire di divertimenti. Così anche questi tempi di gratuità, tempi di vacanza della vita che sperimentavano una libertà pura, alla stessa maniera di quegli spazi di gratuità che costituiscono i terreni abbandonati, le chiese, ecc., scompaiono progressivamente o sono disertati a vantaggio di tempi e di spazi utili.


Senza che ci se ne renda conto, i luoghi e i tempi della vita diventano dunque dei non-luoghi di vita, luoghi di passaggio, in cui non ci si può più fermare, prender tempo, perder tempo. I luoghi di cui ho detto diventano luoghi di transito, dei non-luoghi d’essere.


La generalizzazione del non-luogo


Esagerando solo un poco, si può dire che i luoghi di vita scompaiono, quei luoghi in cui la vita ha il suo domicilio. Il luogo di nascita è diventato indifferente, semplice menzione di un luogo astratto su un foglio di stato civile, tanto più che oggi si nasce in quei non-luoghi che sono gli ospedali o le cliniche ostetriche. L’individuo perciò è come ghermito da non-luoghi di vita, in cui non fa che “passare la sua vita”. Abita appartamenti lussuosi o miseri, luoghi di transito temporaneo, frequenta club o alberghi, sale sulle automobili, circola dappertutto e sempre, in una transumanza generalizzata obbediente alle direttive dell’attività lavorativa. Infine muore all’ospedale, spazio di transito per eccellenza, passa qualche ora o qualche giorno all’obitorio e scompare nella cremazione. Questo moto perpetuo infatti non cessa nemmeno più come un tempo nella quiete di un cimitero o nella pace di una tomba, ma nel fumo dei forni crematori.


Queste itineranze individuali sono prese a carico e facilitate da una fitta rete di trasporti a tutto campo, rete per cui, pur essendo da qualche parte, in un punto qualunque, si e già possibilmente dappertutto altrove, in qualsiasi luogo del mondo.


Questa descrizione è appena esagerata ed ha il solo scopo di indicare e sottolineare il movimento in cui siamo tutti più o meno presi e di attirare l’attenzione sulla scomparsa progressiva e forse inevitabile dei luoghi d’essere dell’uomo, dei luoghi di sé.


Le conseguenze di questa evoluzione sono molteplici e ci vorrebbe tempo per analizzarle. Ci limitiamo dunque qui a suggerirle. La prima è la più importante. In questa dimenticanza dei luoghi e in questo perdersi nello spazio senza luoghi, l’individuo perde il suo corpo e la familiarità con il suo corpo. Questo diventa una specie di oggetto estraneo, una macchina eteroclita e ostentata, che consegna l’io, “mani e piedi legati”, ai capricci del gioco sociale deambulatorio. Allora l’uomo si perde in uno spazio indifferenziato, in cui scompaiono i punti di riferimento, i segnali che consentivano di distinguere il vicino dal lontano. Lo straniero prolifera dappertutto, è il mio vicino di pianerottolo non è più vicino a me del canaco della foresta caledoniana, a cui sono a volte più vicino grazie ai documentari televisivi. Lo straniero è presente dappertutto, ci invade come un fantasma, perché è in noi, perché è noi. E i movimenti estremisti o razzisti si radicano in questa paura. Rivendicano il ritorno ai valori della terra, del suolo, delle radici, e rifiutano gli stranieri come una minaccia per l’identità personale o nazionale. Ma la paura e il rifiuto dell’altro che essi sviluppano non sono che l’espressione dell’angoscia di essersi già perduti. Siamo diventati stranieri a noi stessi. Nelle nostre società moderne in cui la solitudine e 1’anonimato si generalizzano, gli individui, senza fuoco né luogo, diventano nessuno e il solo modo di distinguere gli individui è di attribuire loro un numero d’ordine nella società E tutti i numeri si equivalgono. La persona e l’io scompaiono inghiottiti nell’anonimato di una solitudine che è preludio all’inferno. Perché essere nessuno equivale a essere senza persona. Essere senza se stesso significa essere senza l’altro che mi riconosce e che mi chiama. E l’uomo che non è più chiamato diventa l’individuo di una umanità perduta.


L’uomo nuovo


In questi non-luoghi ogni individuo elabora una nuova e strana immagine di sé, una specie di diluizione generalizzata di sé, una dispersione obbediente alle sollecitazioni del racconto in cui è imprigionato. A un certo punto questa diluizione di sé si coagula, nei punti di controllo del sistema, la dogana, il pedaggio, il registratore di cassa, il distributore di biglietti. Allora ridivento io, ma un io numerato, schedato, anonimo e calcolato. Non ho più un’identità reale, né relazioni reali, mentre esisto in una solitudine definitiva, che è anche una somiglianza radicale, poiché esisto come tutti gli altri con gli stessi percorsi, gli stessi codici, gli stessi messaggi, le stesse sollecitazioni.


Per l’individuo non vi sono dunque più né tradizione né storia, dimenticate o messe tra parentesi. Ciò che conta è l’attualità, nell’urgenza dell’evento. L’individuo si mette a esistere solo quando capita qualcosa e il passato è evocato per allusione solo per confortare il presente. Allora l’individuo si identifica con ciò che succede (nemmeno con ciò che gli succede) e con l’immagine che gliene viene data. S’instaura allora una specie di narcisismo pubblicitario generalizzato, in circuito chiuso. Io sono quest’uomo o questa donna, che fa la pubblicità per questa automobile, venduta in questo supermercato, che vanta questa radio privata, che vanta questo supermercato, che vanta questo albergo che vanta questa compagnia aerea, che... Così in una circolarità infinita...


La situazione presente è dunque infinitamente complessa. Noi esistiamo in un intrico di luoghi e di non-luoghi. Tutti i nostri luoghi d’essere sono minacciati da non-luoghi, come case che finiscono tutte per assomigliarsi perché sono tutte arredate da Habitat o da IKEA. E tutti i non-luoghi che frequentiamo sognano di essere dei luoghi veri, come la casa di campagna che si vorrebbe inserita nel territorio, come la vecchia casa contadina di un tempo. Quotidianamente, a proposito dei luoghi, noi parliamo in permanenza un vocabolario bilingue. Parliamo ancora di casa quando abitiamo dei “condomini” o dei “grandi complessi” (dove per l’appunto non si vive insieme). Siamo costantemente in transito e sogniamo la residenza. Siamo sempre di passaggio, e siamo dei passeggeri, persi sugli svincoli autostradali e abbiamo dimenticato quello che erano i veri viaggi, con veri incontri in veri crocicchi. E comunichiamo dappertutto, si comunica, proprio quando abbiamo disimparato le parole delle nostre lingue per parlare un linguaggio universale e utilitario, povero e standardizzato, il basic English. Così dappertutto l’umanità vissuta diventa un’umanità parlata e sognata.


Conclusione


Questo mondo nuovo è una rete di reti, in cui tutti i percorsi sono insieme identici e singolari. L’uomo come persona ci si perde e diventa individuo anonimo, identico e intercambiabile. E, in questo mondo, il luogo non si definisce più attraverso un sistema di relazioni e di opposizioni ad altri luoghi, come la città e i suoi villaggi. Il paese non appare più da questi incastri successivi di luoghi, villaggi, cantoni, dipartimenti, regioni, nazioni, e con l’uomo scompare quello che noi chiamiamo il mondo. I luoghi si svuotano delle loro differenze e delle loro specificità e gli uomini ormai senza fuoco né luogo, senza fede né legge, diventano uomini immaginari.


Parlare della catastrofe che ci minaccia non equivale a dire che essa sia inevitabile. Ci rimane da rivendicare una vita vivente, dunque mortale, da reinventare un luogo di nascita, nuovo e inedito, luogo di nascita dell’uomo a se stesso. Un luogo in cui ciascuno possa di nuovo stabilire la sua identità e mantenerla, dove incontrare l’altro uomo e raccogliere il tempo lasciando una traccia. E, di conseguenza, ci resta da reinventare frontiere e ponti per superarli, perché non è possibile mantenere le vecchie frontiere e i vecchi ponti. Dobbiamo inventare comportamenti nuovi, nuovi messaggi e nuove relazioni. Nel momento stesso in cui le nuove tecniche rendono illusorie tutte le frontiere, rischiamo di soccombere a questa “pulsione” negativa che consiste nel cementare queste stesse frontiere per chiudere e magnificare le nostre particolarità individuali o collettive. Ciò facendo costruiamo e riempiamo gli spazi liberi, gli spiragli, congeliamo i luoghi, costruiamo “blocchi” e muraglie. Al contrario, dobbiamo imparare o reimparare una logica dell’ambiguità, a non dimenticare che la porta che chiude è precisamente quella che apre, che le frontiere sono fatte per lasciar passare. Il nostro compito essenziale e urgente consiste dunque nel costruire dei “ponti”. Compito difficile, in quanto se il ponte libera dalla chiusura, rischia di distruggere l’autonomia, se unisce delle insularità rischia di opporle. Il ponte, che può essere distruttore, sortita di un popolo conquistatore o invasione di stranieri barbari, è anche ciò che dà a ogni interiorità una necessaria esteriorità, a ogni umanità normata la sua necessaria alterità, significando in tal modo che l’uomo non può vivere senza il suo altro.

Si dedurrà facilmente da quanto si è detto che i limiti e le frontiere sono fatti per essere superati, che sono mobili e devono costantemente spostarsi, inventando indefinitamente un nuovo ordine dei luoghi. Limiti e frontiere ricordano quelle statuette greche, i Kodra, la cui invenzione è attribuita a Dedalo: esse segnavano i limiti ma, spostandosi continuamente, inventavano spazi mobili, a immagine delle umanità mobili dell’uomo (Yves Cattin, L’uomo, l’essere che passa le frontiere, “Concilium”, 1999, n. 280. Traduzione dal francese di Fausto Savoldi).


1 Summa theologiae, I, q. 52, a. 1.

2 Per questa descrizione commenterò liberamente le categorie proposte da Marc Augé nella sua opera Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la modernité, Le Seuil, Paris 1992, 69ss. [trad. it., Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Eleuthera, Milano 1993].

3 II lettore potrà completare queste analisi troppo veloci e troppo astratte leggendo il magnifico romanzo di Ivo Andric, Na Drini Cuprija, Prosveta, 1990 [trad. it., Il ponte sulla Drina, Mondadori, Milano 1961]. Il ponte, che è il “protagonista” principale del romanzo, svolge esattamente lo stesso ruolo che io cerco qui di descrivere, mettendo in comunicazione (o in opposizione) due mondi estranei, 1’impero turco musulmano e la Serbia o l’Austria cristiane.