I discepoli di Emmaus (Luca 24, 13-35)


 

I discepoli di Emmaus (Luca 24, 13-35)


Luca ci presenta un quadro stupendo, ci descrive la vita di chiunque vuole arrivare ad incontrare Gesù. Questo cammino comprende un’andata e un ritorno; un camminare e uno stare seduti a tavola; c’è la delusione e c’è la gioia che riempi il cuore. Infine, a coronamento di tutto, c’è l’incontro con i fratelli, quasi che tutto il resto fosse una preparazione a questo stare insieme. Difatti i versetti successivi al 35, ci presentano Gesù che sta nella comunità dei discepoli che si erano dispersi chi qua chi là: ora sono tutti attorno a Gesù.


Andiamo al testo.


Il versetto 13 dice: “Due di loro erano in cammino”. La vita di ogni giorno è un cammino. Il numero due rappresenta l’inizio della comunità, del popolo; quindi, di ognuno di noi. Uno di quei due, quello che apparirà nel testo senza nome, siamo ognuno di noi e il percorso da fare è per tutti “di sessanta stadi” numero che designa l’imperfezione umana che è in cammino verso la perfezione rappresentata dal numero sette: Dio.


Con poche parole Luca ci spinge a divenire compagni di quei due i quali scendono da Gerusalemme come il malcapitato della parabola del buon Samaritano. Vanno verso Emmaus che è l’equivalente di Gerico. Gesù li accompagna in discesa nelle difficoltà della vita; lì dove si spegne la dolcezza dell’incontro con Dio; lì dove ritrovi il dubbio e l’incertezza., lo scontro con i tuoi compagni di viaggio.


Infatti al versetto 15 è scritto: “Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro”. Ma non si accorgono che è lui: un qualcosa di estraneo fa violenza sui loro occhi e li rende ciechi (v. 16): è la delusione, la paura, è lo spettro lasciato dalla morte atroce di Gesù. Hanno il volto di chi è arrabbiato con la vita (v. 17). Tutta la negatività della vita si dà convegno nel loro cuore. Si sentono morti dentro.


Gesù inizia la sua azione di recupero. In che modo? Li lascia sfogare. È il sistema che usa uno che conosce l’animo umano e il suo carico di tristezza, con chi è “morto dentro”. E quei due aprono il loro animo triste a quello sconosciuto che camminava con loro. Anche il buon Samaritano era uno sconosciuto per chi incappò nei briganti. È interessante notare come in un primo momento sia uno solo dei due, Cleofa, a parlare con Gesù. Poi al versetto 19 a quell’uno si unisce anche l’altro: cioè, tutta la comunità all’unisono manifesta quello che sa. E cosa sa la comunità? Il Kerygma, l’annuncio di Gesù nelle sue parole e nelle sue opere. Il discorso che fanno è quasi uguale a quello che faranno Pietro e anche Paolo in Atti degli apostoli. Però i due fermano il loro racconto alla morte di Gesù, non vanno oltre.


Quella morte in croce è la fine di tutte le loro speranze: è la morte di tutti i loro sogni. “Noi speravamo” dicono al versetto 21, e aggiungono: “che fosse lui a liberare Israele”, manifestando così l’oggetto della loro speranza: la liberazione d’Israele dall’occupazione romana; il ritorno allo splendore della monarchia davidica. Non potevano, quindi, avere un’altra visione della sofferenza, della croce e della morte: È il comune pensare di tutti i tempi: la morte mette fine ad ogni progetto, ad ogni ambizione anche la più nobile. Essa è un muro; anzi, un fossato troppo largo e profondo per andarvi oltre.


Solo la Risurrezione è la realtà che permette di “sperare contro ogni speranza”. Ma i due non sanno cosa sia, anche se corre voce che egli sia vivo, cioè Gesù sia risorto; perché, dicono: “lui in persona non l’hanno visto”. Sarà il problema di sempre e per tutti. Finché non si fa l’esperienza del Risorto non è possibile andare oltre la barriera della morte. Occorre una comunione diretta e personale con Gesù Risorto.


Al versetto 25 Gesù si mette a parlare: ora tocca a lui a penetrare con la luce della sua parola nelle tenebre della loro tristezza e del loro inganno. Di che cosa parla Gesù? Di un nuovo modo di guardare alla sofferenza, alla croce e alla morte e lo fa aiutandosi con il libro della bibbia; precisamente, citando il profeta Isaia. Questi al capitolo 53 dove parla del Messia sofferente, offre una versione della morte come germe di vita per sé e per gli altri. I due, trascuravano questo secondo momento della vita del Messia: la sua morte infame, considerata quale chicco di grano che caduto in terra muore e produce molto frutto.


Stolti e tardi di cuore”, dice Gesù. Senza testa e dal cuore appesantito. Sembra che con questi termini Gesù voglia dare il nome e il cognome a quei due. L’identità umana resterà sempre con questi due appellativi addosso se non interverrà la luce di Gesù a dare ali alle loro piccole attese. Bisogna volare in alto: ma come si fa? Gesù si mette a spiegare loro la bibbia. Il testo dice al versetto 27: “Spiegò loro in tutte le scritture ciò che si riferiva a lui”. Come si fa noi a trovare un collegamento con Gesù nella bibbia ora che non abbiamo più a nostro fianco Gesù stesso?


Con il suo aiuto, bisogna diventare capaci a scorgere in ogni frase, in ogni personaggio e fatto, le orme, il passaggio e la presenza di Gesù. E soprattutto essere capaci di leggere la croce di Gesù non come un incidente di percorso, una disavventura che ha interrotto il cammino di Gesù; bensì, come la porta d’ingresso, il germe di vita nuova per Gesù e per quanti credono in lui.


Il misterioso compagno dei due compagni di viaggio apre alle loro menti nuove prospettive; aiuta a leggere la realtà in profondità e con occhi nuovi. Tutto riprende senso a partire dalle sue parole e quando, al versetto 28 i due sono arrivati a destinazione, cioè a Emmaus, Gesù mostra di voler proseguire il suo cammino, quelli lo trattengono. Ormai la loro vita avrà un significato solo restando in compagnia di Gesù. Ormai egli è indispensabile per affrontare la strada che si aprirà da quel momento in poi; perciò in coro essi dicono: “Resta con noi”(v.29) e aggiungono il motivo per cui egli deve restare con loro: “perché si fa sera e il giorno già volge al declino”. La missione di Gesù non è ancora finita: gli resta da svolgere l’ultimo atto. Quello di stare a mensa e di spezzare il pane con loro. Così “egli entrò per rimanere con loro”. Al posto di rimanere possiamo mettere il verbo dimorare e così avremo l’esplicitazione di quello che è il nome di Dio: l’ Emmanuele, Dio che dimora con noi. Per sempre.


Quando si fa sera e il giorno volge al declino, si sentono avanzare le paure della notte, la tenebra ci avvolge e noi ci sentiamo smarriti: in queste condizioni è necessario che Gesù resti con noi, seduto a tavola, anzi “sdraiato” in una grande intimità, come dice il testo greco al versetto 30. Così sistemato, Gesù “prese il pane, disse la benedizione, lo spezzo e lo diede loro”. Con quest’ultima azione si chiude, rafforzandosi, l’incontro. La parola e il pane. In essa “si aprono i nostri occhi e riconosciamo chi è Gesù.


Però il versetto 31 continua dicendo: “ma Gesù divenne invisibile ai loro occhi” e non sparì come dice la traduzione CEI. Gesù resta con i due, con la comunità, con la sua chiesa, anche se in maniera invisibile. E se ne vedono i risultati. Emmaus luogo di destinazione del cammino dei due discepoli e tomba delle loro speranze, si colora di fiducia. Il cammino non termina qui come volevano i due: nella loro vita, a causa di Gesù e della sua visita, si aprono orizzonti nuovi.


Al versetto 32 si dicono l’un l’altro: “Non ci ardeva forse il cuore mentre Gesù conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le scritture?”. A questo punto Emmaus diventa solo una tappa e non la meta definitiva del loro viaggio. Così i due ritornano nella stessa notte a Gerusalemme. Un viaggio diverso da quello fatto durante la giornata: un viaggio pieno di entusiasmo, illuminato da Gesù apparso ai loro occhi come colui che spiega la Scritture; come colui che siede a tavola e spezza il pane per loro.


La loro esistenza è cambiata; è stato Gesù a cambiarla. A Gerusalemme, i due tornano dai loro amici, gli Undici Apostoli e trovano lo stesso entusiasmo che è dentro i loro cuori. Perché è detto nel versetto 33: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone”. È il grido che giunge pure a noi. Anche noi facciamo il cammino dei due discepoli: dall’amarezza della delusione che ci conduce in basso cioè ad Emmaus, luogo di sepoltura di ogni speranza; all’incontro con Gesù in cui Gesù si manifesta nella duplice forma della sacra Scrittura e del pane spezzato; fino al ritorno nella luce di Gerusalemme.


Alcune considerazioni


Luca parla di un fatto realmente accaduto un tempo ma che si ripete ogni giorno, per ciascuno di noi. Come ai due discepoli di Emmaus, il fatto di sapere anche con criteri scientifici, tutto sulla Risurrezione di Cristo, non ci è di gran giovamento. Che Cristo sia risorto 2000 anni fa ci lascia indifferenti; come anche il sapere che anche per noi un giorno ci sarà la risurrezione dei morti. La Risurrezione di Gesù, insomma, ci resta un fatto astratto o del passato o del futuro.


Invece, è al presente, pieno di incognite, che la Risurrezione di Gesù non ci dice nulla, non offre alcuna finestra aperta. E questo presente, come per i due discepoli di Emmaus, è segnato da sconfitte davanti alle quali ognuno si sente impotente e schiacciato: il potere economico, la propaganda, la moda, il benessere, lo sviluppo e il denaro: veri idoli. Uno non è più libero: si rassegna a vivere una vita senza senso, muore la speranza, si spegne ogni lampada, si diventa schiavi soddisfatti, contenti, tranquilli, chiusi in una gabbia dorata.


Ha ancora senso credere che qualcuno è Risorto da morte, ha spezzato le catene di ogni schiavitù? Ce ne andiamo in giro con la nostra fede sotto il braccio, senza sapere che farcene. Molti risolvono il problema dicendo: si risorge dopo morte; lavoriamo per guadagnarci il paradiso. Non passa neppur per la testa che la fede nella Risurrezione serve proprio adesso, qui, ora. Altrimenti, che vale?


Gli apostoli, le donne, i due di Emmaus, sperimentarono proprio questo particolare: che la loro vita qui ora al presente, si trasformava, credendo nella Risurrezione di Gesù dai morti. Gesù nella sua persona aveva superato le barriere della morte e di ogni schiavitù che ci tiene legati ed era lì con loro, dentro le loro case e soprattutto dentro i loro cuori. Se la Risurrezione era vera per Gesù lo era anche per i suoi discepoli. Non c’era più motivo per sentirsi sconfitti e rassegnati.

Nacque in loro una speranza nuova. Una nuova forza, più forte di tutto e di tutti: la forza stessa di Dio, legata alla persona di Gesù. Egli era la porta attraverso la quale si viveva già nella vittoria su ogni limite e schiavitù. Tutto era vinto: il potere politico, economico, ideologico.


Ma dove incontrare questa forza, Gesù il Vivente? Luca risponde così col racconto dei due discepoli di Emmaus: ci sono tre canali di comunicazione con Gesù. La preghiera, la Parola di Dio e lo spezzare il pane insieme.


Credere nella Risurrezione non è guardare solo al passato o al futuro ma sentire che un Amico cammina con te, percorre la tua stessa strada, parla con te, mangia con te: Gesù il Vivente. La Risurrezione di Gesù ha effetti salutari anche per noi, qui, ora: è come la turbina che genera luce, ora qui, adesso. Non può spegnersi, fermarsi, perché è opera di Dio il Fedele.


Quindi, la radice che sorregge la nostra fede nella Risurrezione è l’essere certi che Qualcuno si è impegnato e si impegna con noi in maniera irrevocabile. E ciò non è una cosa astratta e filosofica e basta, ma nasce dalla Parola amica che Qualcuno, Gesù ci indirizza, pronuncia a nostro favore, ci restituisce la nostra coscienza, conferma la nostra speranza fino al punto di farci diventare capaci di fare l’impossibile, cioè che dalla morte possa nascere la vita.


Credere nella Risurrezione non è credere a qualcosa ma credere a qualcuno che ha il potere di distruggere ogni limite, ogni barriera e che fa sì che la vita sia sempre vittoriosa. È logico che la forza della risurrezione si manifesta soltanto nella misura della fede che si ha in essa. È come l’amicizia: si regge sulla fiducia reciproca. Allora diventa forza inarrestabile.


L’unica prova della risurrezione è la mia, la nostra vita che oggi, qui, adesso risuscita, si rinnova, vince le forze della morte, libera le forze represse e oppresse e agisce in noi più forte della morte (Franco Barbero).