Incontrarsi in Dio con i musulmani


 

Incontrarsi in Dio con i musulmani

Musulmani e cristiani sono tutti, gli uni come gli altri, innanzitutto dei credenti, dei credenti in Dio. Questa constatazione che dovrebbe essere un’evidenza, oggi non lo è - o non lo è più - per molti. Soprattutto in Occidente, sono numerosi coloro che, quando sentono parlare di islam, pensano per prima cosa alla politica. Anche se certi avvenimenti, ampiamente orchestrati dai media, hanno potuto favorire questo, un simile sguardo, generico e riduttivo, è sentito dolorosamente da molti musulmani. L’islam, così come il cristianesimo, è anzitutto una religione, un’attitudine di fede, vissuta dai credenti, fede che dà forma alla loro vita quotidiana. (…) Questa priorità non cancella l’importanza della dimensione politica in molti aspetti della vita delle società musulmane e anche nelle società dove i musulmani sono minoritari; d’altra parte, il fenomeno - relativamente recente - dell’islam politico, definito spesso «islamismo», ha una sua importanza, anche se è molto lontano dall’inglobare l’insieme dei musulmani. Ma da qui a ridurre l’islam a una politica è una grave ingiustizia.


Voglio prima di tutto mostrare qui come cristiani e musulmani possono vivere insieme le loro relazioni di credenti e, dunque, come la vita di fede, la vita spirituale, può realmente essere un terreno di incontro tra musulmani e cristiani. Parlando di vita spirituale non intendo separarla dalla vita ordinaria e quotidiana, con tutti i suoi aspetti economici, sociali, culturali e politici. Se dico che la vita spirituale può essere così un luogo di incontro tra cristiani e musulmani, questo significa che cristiani e musulmani possono incontrarsi in Dio. Ma parlare di un incontro in Dio ci mette di fronte a una domanda spesso posta – da una parte e dall’altra – implicitamente o esplicitamente: «Cristiani e musulmani, abbiamo lo stesso Dio?».


Dietro a tale questione (sapere se musulmani e cristiani hanno lo stesso Dio), c’è una constatazione che non si può eludere. L’islam e il cristianesimo fanno parte - con l’ebraismo - di quelle che chiamiamo religioni monoteiste, vale a dire religioni che affermano l’unicità (la non-molteplicità) e l’unità (la non-divisione) di Dio. La differenza, tuttavia, tra la confessione cristiana che confessa l’unità di Dio come quella di un Dio che, in se stesso, è Amore, ovvero quella della vita trinitaria, e la confessione musulmana che non riconosce questo mistero trinitario, sembra molto profonda e rilevante.


Per vivere relazioni vere e costruttive tra cristiani e musulmani, mi sembra importante e positivo riconoscere, ad un tempo, l’impatto e l’importanza di questa differenza tra noi e la profondità dell’incontro possibile nell’atto di credere in Dio, nell’orientamento esistenziale di tutta la vita verso lo stesso Dio vivente (che è molto più di una semplice credenza e di una pura convinzione teorica che Dio esiste).


L’islam non è una semplice eresia cristiana come certi hanno potuto pensare. Anche se l’islam conosce la persona di Gesù ed è impregnato di numerosi elementi della tradizione biblica, lo sguardo dell’islam su Gesù e sul suo ruolo salvifico (con la negazione della redenzione tramite la croce), la sua concezione del rapporto di Gesù con Dio e, da qui, la rappresentazione che l’islam si fa di Dio, tutti questi elementi ne fanno una religione «altra» dal cristianesimo. Il riconoscimento di questa differenza è benefico per gli uni e per gli altri, dal momento che aiuta a viver la relazione nella verità; è anche uno degli aspetti di rispetto reciproco.


Il riconoscimento di questa differenza tuttavia non elimina per nulla la profondità e l’importanza dell’incontro che musulmani e cristiani possono vivere nella loro fede in Dio. Ogni volta che mi capita di farne esperienza, questo è per me fonte di gioia. La fede dei musulmani (la loro adorazione e la loro preghiera, l’insieme delle loro pratiche di culto) si rivolge a Dio vivente, trascendente - vale a dire Altro rispetto alle sue creature, il totalmente Altro e l’infinitamente Vicino e Intimo - Creatore del cielo e della terra, che si manifesta agli uomini attraverso la sua creazione, che ha suscitato dei veri credenti e adoratori, come Abramo e tanti altri e di cui la natura supera infinitamente tutto ciò che noi possiamo immaginare o dire. È così che possiamo riconoscere che il Dio nel quale i musulmani credono non è per nulla una creatura, un idolo, non è una pura idea o una rappresentazione, ma il Dio unico e vivente, nel quale crediamo anche noi, qualunque siano le differenze importanti tra loro e noi nella rappresentazione di questo Dio unico e con le conseguenze che queste differenze possono avere per l’esperienza di fede.


Il concilio Vaticano II, nella Lumen gentium, ha potuto affermare: «Il disegno di salvezza unisce coloro che riconoscono il Creatore, in primo luogo i musulmani che professano di aver avuto la fede di Abramo, adorano con noi (adorant nobiscum) il Dio unico, misericordioso, futuro giudice degli uomini nell’ultimo giorno».


È nello stesso senso che Giovanni Paolo II, parlando del dialogo religioso con l’islam, ha potuto dire: «Con gioia, noi, cristiani, riconosciamo i valori religiosi che abbiamo in comune con l’islam. Vorrei oggi riprendere ciò che ho detto, qualche anno fa, ai giovani di Casablanca: “Noi crediamo nello stesso Dio, il Dio unico, il Dio vivente, il Dio che crea i mondi e porta le sue creature alla perfezione”… Il patrimonio di testi rivelati nella Bibbia parla con voce unanime dell’unicità di Dio. Gesù stesso la riafferma facendo sua la professione di fede di Israele: “Il Signore nostro Dio è l’unico Signore”» (Mc 12, 29; cfr Dt 6, 4-5).

Questa identità di fede in Colui nel quale crediamo permette un incontro nella fede, un incontro in quanto credenti, che ci permette di essere realmente «insieme davanti a Dio». Riconoscere, da una parte e dall’altra, che noi possiamo essere «insieme davanti a Dio» implica anche che noi diamo la priorità a Dio in questo incontro, che noi riconosciamo che, in un modo o nell’altro, è Dio stesso che ci mette insieme e ci fa incontrare. Questo aiuta anche a vivere le nostre differenze in un rispetto più profondo, riconoscendo che, gli uni e gli altri, intendiamo credere ciò che noi crediamo, nella fedeltà alla voce della nostra coscienza e così nella fedeltà verso Dio; almeno nella misura in cui la nostra fede è un fatto personale, una convinzione assunta personalmente e non unicamente una mera eredità sociale, In effetti, penso di poter dire che, musulmani e cristiani, siamo tutti d’accordo che è attraverso la coscienza che noi viviamo il nostro rapporto con Dio. In questo senso, possiamo essere insieme anche là dove divergiamo. Possiamo dire questo proprio perché crediamo nello stesso Dio, riconoscendo in questo il mistero che è il cammino di ogni uomo con Dio.

Un simile incontro nella fede in Dio può dare una dimensione tutta speciale al modo di vivere insieme nella vita ordinaria, anche se, spesso, questo non lo si esprime a parole. Questa dimensione può avere un impatto su tutta l’atmosfera dell’incontro e della vita in comune. Un esempio eminente è un ex ministro musulmano, che aveva fatto mettere in testa all’annuncio di condoglianze nel giornale, in occasione della morte di un amico cristiano: «il mio fratello in Dio Raouf…». Ciò che diventa allora possibile è una certa forma di preghiera comune, su cui ritorneremo.

La possibilità di incontro nella fede in Dio non contraddice dunque la differenza, ma aiuta piuttosto a viverla in una maniera positiva. Giovanni Paolo II, nel testo citato, insistendo sull’incontro nella fede, rileva con la stessa chiarezza la differenza: «Alla luce della rivelazione piena in Cristo, noi sappiamo che questa misteriosa unicità non è riducibile a una unità numerica. Il mistero cristiano ci fa contemplare nell’unità sostanziale di Dio le persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: ciascuna in possesso dell’intera e indivisibile sostanza divina, ma l’una divisa dall’altra in virtù della relazione reciproca».


Se c’è in questo una differenza tra la fede musulmana e la fede cristiana, è bene ricordare allo stesso tempo, come ha fatto un pensatore musulmano contemporaneo, che anche per l’islam l’unità di Dio non è un’unità numerica, ma una «unità vitale/di vita», il che vuol dire che questa unità rappresenta una vita che non conosce alcuna rottura, alcuna divisione. Questo pensatore continua dicendo: «È per questa ragione che, per l’islam, Dio è uno nella sua essenza, e multiplo nei suoi attributi, atti e nomi. È per questa ragione che i filosofi musulmani hanno potuto dire che Dio è Intelligente, Intelligito, Intelletto; come certi mistici musulmani hanno potuto dire che Dio è Amante,  Amato e Amore».

Queste ultime espressioni non sono frequenti nell’islam e non tutti i musulmani accettano queste formule come «ortodosse»; penso, d’altro canto, che non è necessario che ci sia una rappresentazione equivalente del riconoscimento cristiano del mistero della vita trinitaria in Dio. Menziono la sottolineatura di questo pensatore solo al fine di indicare che le differenze reali e profonde non significano necessariamente opposizione totale e netta. Non bisogna mai, d’altro canto, dimenticare che, quando un discorso su Dio diventa «terreno di discordia», si rischia molto di non parlare più del Dio vivente che, per noi tutti, è innanzitutto il Dio del mistero ineffabile.


Nel testo citato, Giovanni Paolo II, dopo aver ricordato che il quarto Concilio Laterano (1215) dice della sostanza divina che «non genera e non è generata» - ciò che è letteralmente l’espressione che la Sura 112 del Corano utilizza parlando di Dio – aggiunge ancora: «In questo senso, vale a dire in riferimento all’unica sostanza divina, esiste una corrispondenza significativa tra il cristianesimo e l’islam». Di fatto, c’è in questo, nell’islam, tutta una teologia dell’unità-unicità (in arabo tawhid) divina: riconoscere che non c’è che un solo Dio significa, come il Corano stesso sottolinea, rifiutare tutti gli idoli politeisti, e dunque ogni potere che si pretende assoluto, ogni potere totalitario.


Dopo aver posto questo punto di incontro della confessione monoteista, Giovanni Paolo II sottolinea il ruolo della differenza: «Tuttavia, questa corrispondenza non deve far dimenticare le divergenze tra le due religioni. Noi sappiamo in effetti che l’unità di Dio si esprime nel mistero delle tre Persone divine. In effetti, poiché è Amore (cfr 1 Gv 4,8), Dio è da sempre il Padre che si dà interamente generando il Figlio, entrambi uniti nella comunione d’amore che è lo Spirito Santo. Questa distinzione e questa compenetrazione (pericoresi) di tre Persone divine non si aggiungono l’un l’altra nell’unità, ma ne sono l’espressione più profonda e più caratteristica. Non bisogna dimenticare d’altro canto che il monoteismo trinitario, tipico del cristianesimo, resta un mistero inaccessibile alla ragione umana, che è tuttavia chiamata ad accettare la rivelazione della natura intima di Dio». (…)


In tutte le religioni la preghiera è il luogo per eccellenza dove il credente vive ed esprime il suo rapporto con Dio, la sua fede. Se la condotta concreta dei credenti è la realizzazione più radicale della propria fede, la preghiera ne presenta lo spirito. Spesso la preghiera è segnata dallo stesso paradosso che appartiene a tutto ciò che possiamo dire di Dio. Se Dio, in effetti, è al tempo stesso l’Assoluto, il «Tutto», il «totalmente altro, il tutt’Altro» e il mistero che supera ogni comprensione ed espressione, allora questo rapporto con Dio che è la preghiera sarà, da una parte, pienezza e ricchezza e dall’altra vuoto e impotenza. Penso che questo sia vero sia per il cristianesimo che per l’islam.

Abbiamo già avuto occasione di indicare che la diversità di religioni rappresenta anche una diversità di atteggiamenti e di contenuti della preghiera. In questo modo, preghiera cristiana e preghiera musulmana non saranno la stessa cosa e questa differenza va rispettata. Ma, se questo è vero, è altrettanto vero che la possibilità di un incontro nella fede nel Dio unico e vivente implica ugualmente una possibilità di incontro nella preghiera.


Tenere insieme i due estremi di questo paradosso non è cosa facile, ma trasformare il paradosso in contraddizione mi sembra gravemente pericoloso. Tanto più che oggi abbiamo la tendenza a mettere le religioni in generale, e islam e cristianesimo in particolare, in opposizione e conflitto. E per questa ragione la recente preoccupazione di mettere le spiritualità in situazioni di incontro e dialogo, con un grande rispetto per le differenze - preoccupazione che significa, al tempo stesso, rispetto di Dio e rispetto degli uomini e delle loro coscienze - mi sembra realmente opera dello Spirito di Dio e dunque un’esigenza per ogni religione.


Nel cristianesimo, e attraverso le diversità delle confessioni cristiane, c’è una grande molteplicità di tipi e forme di preghiera. C’è una preghiera liturgica, di cui l’Eucaristia/la Cena del Signore rappresenta il culmine: poi le preghiere che appartengono all’esercizio di differenti sacramenti; ma anche la preghiera comunitaria ufficiale che è la preghiera delle ore (l’ufficio divino). Infine, ci sono tutte le forme di preghiera devozionale e libera, comunitaria e privata.


Il cristiano considera lo Spirito di Dio la fonte di ogni preghiera; crede che ogni preghiera è, in un certo modo, unirsi al Figlio nel movimento di tutta la sua vita verso il Padre, ricevendo tutto dal Padre e rendendogli tutto (di qui la conclusione di numerose preghiere liturgiche: «per Gesù Cristo, nostro Signore»). Così possiamo dire che la preghiera diviene vita, e che la vita si trasmette in forme di preghiera: «Trovare Dio in tutto e trovare tutto in Dio».


Nell’islam la preghiera (chiamata salât) è innanzitutto il primo dovere d’osservanza religiosa, dopo la confessione di fede (shahâda), ed è anche il secondo «pilastro» dell’islam. Questa preghiera va compiuta cinque volte al giorno, a ore precise e con un rituale ben definito, ritmando così la vita di tutti i giorni. Ha un carattere comunitario più pronunciato e obbligatorio il venerdì, quando è preceduta dal sermone settimanale. Occorre aggiungere, a questa preghiera quotidiana e a quella del venerdì, la preghiera (simile) del mattino delle due grandi feste (la chiusura del Ramadan, la Piccola Festa e la festa del sacrificio di Abramo, la Grande Festa ), e preghiere occasionali (funerali e altre occasioni).


Accanto a queste preghiere ufficiali e rituali-legali, c’è ciò che chiamiamo «la preghiera d’invocazione» (in arabo du’à), una preghiera libera, fatta soprattutto di suppliche e di domande, ma che può comportare anche lodi e azioni di grazia, così come richieste di perdono (…). Non c’è tuttavia una separazione totale tra la preghiera ufficiale e la preghiera d’invocazione, dal momento che, all’interno della preghiera rituale (salât) ci sono momenti durante i quali c’è un posto per la preghiera d’invocazione (du’à).


È in questa preghiera d’invocazione che c’è un posto possibile e riconosciuto per vivere la dimensione dell’incontro. Davanti a Dio vivente e unico, noi possiamo pregare gli uni per gli altri, cristiani per i musulmani e musulmani per i cristiani. Sono colpito dal fatto che molti musulmani mi dicano: «Padre, prega per me». E quando anch’io domando loro di pregare per me, sono spesso favorevolmente colpiti. Un ragazzo, che stava specializzandosi in scienze coraniche, mi ha detto, quando gli ho chiesto di pregare per me: «È la seconda volta nella mia vita che un cristiano mi chiede di pregare per lui, e questo è molto importante per me». In questo noi viviamo la preghiera come fonte di comunione tra di noi. (Christian Van Nispen tot Sevenaer, Chrétiens et musulmans. Frères devant Dieu, Editions de L’Atelier, Paris 2004. I due brani sono stati tradotti dal francese da Anna Pozzi. Il testo è apparso su “Mondo e Missione”, Agosto-Settembre, n. 7).