Integrazione
Integrazione
Molto spesso, nei discorsi ufficiali, nelle assemblee pastorali, nei documenti della Chiesa locale e nel linguaggio corrente tra operatori pastorali, siano essi sacerdoti o laici, si usa l’ambiguo termine “integrazione” nel far riferimento alle minoranze, agli stranieri di un determinato ambiente o contesto sociale. Si dice: “è tempo di integrazione”, ormai “sono integrati”, “si deve agire per una maggior integrazione”, ecc...
In riferimento alle comunità delle missioni cattoliche di lingua italiana parlare di “integrazione” sembra particolarmente “di moda” eppure tanto inappropriato quanto superficiale.
È vero che la cosiddetta “seconda generazione” degli immigrati parla correttamente la lingua locale eppure spesso, nel nostro ambiente, si “parla tedesco ma si prega in italiano”.
La fede rimane frequentemente legata alla memoria delle proprie origini per molte generazioni, e ciò non è senza valore, si tratta invece di elementi che impediscono la disgregazione e la spinta verso una contingenza nella quale prevalgono criteri utilitaristici.
C’è un motivo, a mio avviso, che giustifica l’insistenza degli “integrazionisti”. Alcune popolazioni europee appaiono, pur con il loro sofisticato tenore di vita, in irreparabile declino e comunque prive di una coraggiosa prospettiva di futuro. Tutti gli europei, in genere, sono consapevoli di vivere un presente ancora privilegiato e vogliono difenderlo.
Tuttavia l’autocompiacimento per le proprie condizioni di vita e per la propria cultura dominante non impedisce il diffondersi di una logica consumistica che degrada un po’ tutto, togliendo la voglia di lottare e il coraggio di dare la vita per i grandi ideali.
L’integrazione che comunque rimane una libera opzione non trova argomenti per una politica sociale, tantomeno per una teologia pastorale contemporanea (Luigi D’Errico, Editoriale, “Collegamento Antenna”, 10-11, ottobre-novembre 1999, p. 2).