Missionario dei Migranti (2)
Poiché la causa principale dei mali crescenti sta nel fatto che a quegli infelici manca l’assistenza sacerdotale che amministra e accresce la grazia celeste, decidemmo di inviare costì dall’Italia numerosi sacerdoti, i quali possano confortare i loro conterranei con la lingua conosciuta, insegnare la dottrina della fede e i precetti di vita cristiana ignorati o dimenticati, esercitare presso di loro il salutare ministero dei Sacramenti, educare i figli a crescere nella religione e in sentimenti di umanità, giovare infine a tutti, di qualunque grado, con la parola e con l’azione, assistere tutti secondo i doveri della missione sacerdotale.
E affinché ciò possa compiersi più facilmente, con Nostra lettera sotto l’anello del Pescatore del 15 novembre dello scorso anno istituimmo l’Apostolico Collegio dei Sacerdoti presso la sede vescovile di Piacenza, sotto la direzione del venerabile Fratello Giovanni Battista Vescovo di Piacenza, ove possano convenire dall’Italia gli ecclesiastici che animati dall’amore di Cristo, vogliano coltivare quegli studi, esercitare quelle funzioni e quella disciplina per cui possano con ardore e con successo andare in missione nel nome di Cristo, presso i lontani cittadini italiani, e diventare efficaci dispensatori dei misteri divini (Leone XIII, Lettera Quam aerumnosa, 10.12.1888, in: Enchiridion della Chiesa per le migrazioni, n. 13).
Quale debba essere lo spirito animatore in coloro che sono designati dall’Autorità ecclesiastica all’assistenza degli emigranti, apprendetelo dalla sublime parabola del “buon pastore”, nella quale, -come in altri insegnamenti ispirati dalla medesima similitudine il divin Redentore “Pastore delle anime nostre” e “Principe dei pastori”, sembra voler tratteggiare quasi l’intimo autoritratto. Benché la similitudine riguardi in generale chiunque abbia il mandato di governare le anime, ed esprima in modo speciale l’unità della Chiesa e la volontà salvifica di Cristo verso tutti gli uomini, nondimeno essa offre alla vostra considerazione alcuni particolari di commovente aderenza al vostro ufficio.
Tali sono, fra gli altri, la mutua, individuale conoscenza tra il pastore e le singole pecorelle, la premura per ciascuna di esse, l’insonne sollecitudine per quelle che la lontananza dall’ovile pone tra i pericoli, l’interesse del pastore, così differente dal mercenario, a seguirle e custodirle, provvedendole di pascoli salutari. Voi ricorderete che “è volontà del Padre vostro che sta nei cieli che neppure uno di questi piccoli perisca”, e, per conseguenza, che è indispensabile al buon pastore la prontezza alla fatica, alle rinunzie e all’eroismo.
Mirate dunque con animo di pastori questo vostro gregge, sparso per ogni dove sulla terra, oltre i monti e gli oceani.
Non la brama di avventure, né l’altrui violenza li hanno indotti a percorrere nel sudore le vie del mondo; ma quasi sempre il senso della personale dignità, risoluta a conquistare col lavoro il diritto ai beni necessari della vita, oppure l’ufficio amorevole di padre e di figlio verso la famiglia. Il dolce e legittimo sogno di tornare un giorno nel caro borgo nativo con una indipendenza economica bastevole ad assicurare l’avvenire, ha prevalso sovente nell’emigrante sull’amarezza di lasciare “ogni cosa diletta più caramente” e dona la tempra al suo animo per affrontare “quello strale - che l’arco dell’esilio pria saetta” e per provare “sì come sa di sale - lo pane altrui, e com’è duro calle - lo scendere e il salir per l’altrui scale”.
Ma quanto spesso, particolarmente nell’inizio della nuova vita, il gravame dei sacrifici e delle rinunzie supera le animose previsioni! Il Paese, le persone e le cose che lo circondano, il genere di lavoro, tutto e tutti sembra che congiurino contro di lui, determinando intime crisi di nostalgia e di abbattimento!
Il clima gli appare avverso, la lingua sconosciuta sembra rinchiuderlo in una penosa prigione; lo sguardo indifferente, e talvolta forse sprezzante, dei nativi l’offende; la scarsa conoscenza delle leggi e dei costumi gl’impediscono di muoversi a suo agio; una specie di incubo lo rappresenta a se stesso quasi naufrago in un’isola deserta. Non di rado gran parte di queste pene non cessano neppure quando egli abbia trovato lavoro e stabilità in una colonia di connazionali. Simili condizioni materiali e morali degli emigranti debbono ridestare nelle anime sacerdotali la stessa immensa pietà che Gesù provò nel mirare, un giorno, intorno a Sé le turbe fameliche, “stanche e abbattute come pecore senza pastore”.
E se il sacerdote, che ne abbia il legittimo mandato, lascia al sicuro le novantanove pecorelle e parte per terre straniere affine di condurre a salvamento anche una sola, colà dispersa, egli assaporerà quell’intima gioia che Cristo partecipa ai suoi apostoli.Dunque, un amore soprannaturale per le anime, quanto più è possibile, simile, per estensione, intensità, disinteresse, a quello del divino Pastore, che non dubitò di immolare la sua vita per tutti, deve porsi a fondamento di ogni vostro pensiero ed ispirare le vostre risoluzioni.
Tale amore, quasi indistinto da quello che nutrite per il Redentore, consacrerà, elevandoli, il naturale sentimento di simpatia verso i vostri connazionali, la spontanea inclinazione o il dovere dell’obbedienza in questo genere di apostolato, ogni azione di assistenza non strettamente spirituale. Da questa stessa fonte della carità attingerete il lume della scelta dei mezzi, la perseveranza nelle fatiche, la prudenza nei rapporti con le autorità locali, sia religiose che civili e padronali, quella condotta, cioè, che assicura stabile efficacia ad ogni serio organismo.
In una parola, la coscienza di “buoni pastori” sul modello di Gesù: ecco lo “spirito” che deve presiedere nei vostri comitati e nei vostri animi.Ma ogni genuina carità, secondo i ripetuti insegnamenti dello Spirito Santo, non sa rimanere inerte nelle regioni della pura contemplazione, né esaurirsi in sterili sentimenti; bensì freme di scendere alla concretezza dell’azione conservando la sua divina caratteristica, l’universalità, e cioè, verso tutti e con ogni mezzo. In tal modo l’apostolo delle genti, a cui la eccelsa compenetrazione nello spirito di Cristo dettò l’incomparabile inno alla carità, poté dire di se stesso: “Mi son fatto debole coi deboli...; mi son fatto tutto a tutti, per far tutti salvi”.Farsi tutto a tutti: ecco la norma pratica e quotidiana di ogni apo stolato, in particolare del vostro, che ha come oggetto, nella gran parte dei casi, persone cui tutto manca e che in tutto attendono l’aiuto.
Con intima soddisfazione abbiamo appreso che i programmi della Direzione delle Opere di Emigrazione per l’Italia e dei Comitati diocesani si sono lasciati guidare da quel principio. Questi ultimi in particolare, vogliono essere centri di studio dei problemi locali dell’emigrazione, preparare spiritualmente, socialmente e tecnicamente gli emigranti, aiutarli nello svolgimento delle “pratiche” necessarie all’espatrio, servendosi altresì della generosa collaborazione di altre benemerite Associazioni, quali l’Azione Cattolica, le ACLI, la Pontificia Opera di Assistenza, l’Onarmo, la Protezione della Giovane (Pio XII, Discorso al primo Convegno dei delegati per gli emigranti delle diocesi italiane accogliendovi con paterna effusione, 23.07.1957, in: Enchiridion della Chiesa per le migrazioni, nn. 331-336).
Lo spirito del buon pastore che innalza l’assistenza caritatevole alla dignità dell’apostolato, si ha principalmente nel sacerdote che vive e lavora tra gli emigrati, fattosi egli stesso emigrato per Cristo.
Desideriamo di accennare a qualche considerazione su questo argomento, poiché l’attività dei missionari della emigrazione, integrando e quasi coronando la vostra, concorrerà a meglio illuminarla.
L’importanza, che la Chiesa annette alle missioni tra gli emigrati, si può arguire dal numero sempre crescente dei sacerdoti ad essa addetti. Mai, come al presente, schiere cosi numerose condivisero l’esilio, sia forzato che volontario, dei loro fedeli. Essi meritano la riconoscenza e l’appoggio della Chiesa, che Noi non esitiamo a riconfermare, poiché per primi siamo debitori a Cristo dell’ufficio di buon pastore. Ci rendiamo conto di quanto la loro vita sia intessuta di difficoltà e di disagi, e come ogni ora della loro giornata è, di per sé, un olocausto offerto a Dio.
Affinché tanta generosità consegua efficacemente lo scopo che ne attende la Chiesa, il missionario della emigrazione deve darsi premura di arricchire il proprio corredo di virtù sacerdotali con quelle consone al suo ufficio, tra cui vorremmo menzionare alcune, ed in primo luogo, la retta intenzione e l’assiduità della preghiera. La prima gl’impedirà di confondere la sua missione sacerdotale con una qualsiasi assistenza “altruistica”, che, per quanto mossa da nobili motivi, quale l’amor di patria, rimane inferiore alla dignità dell’apostolato, né vale a comunicare l’impulso di una costante, totale e disinteressata dedizione al prossimo. Il gregge, a sua volta, difficilmente sbaglia nel giudicare la rettitudine d’intenzione del proprio pastore, sapendo ben distinguere un missionario da un mercenario o da chi abbia l’ufficio di promuovere gl’interessi del proprio Paese, sia pure in armonia con quelli degli emigrati. I missionari, come dice la stessa parola, sono inviati da Dio e dalla Chiesa per la cura spirituale delle anime.
È chiaro che alla effettiva rettitudine d’intenzione non si perviene che con l’assidua preghiera, necessaria a tutti e sempre, ma particolarmente indispensabile al missionario. In un genere di vita mossa, qual è la sua, nell’isolamento anche fisico dai propri confratelli, sotto l’onere d’innumerevoli impegni, che tendono a isterilire lo spirito, la preghiera è il riposo, la compagnia, l’alimento dell’anima sacerdotale.Insieme con queste virtù interiori, sorgenti nascoste di energie, il missionario coltiverà altresì quelle esteriori, regolatrici dei rapporti coi fedeli e con le persone e le cose che lo circondano. Egli sarà pastore vigile, prudente e paziente.
Veglierà con acuto spirito di osservazione per impedire che false dottrine e perversi costumi siano accolti dagli emigrati col pretesto dell’adeguamento alle circostanze locali. Ove il Paese ospite intendesse promuovere la cosiddetta assimilazione degli stranieri, il missionario si adopererà affinché ciò non venga fatto a spese dei diritti naturali o con danno dei valori religiosi e morali, spesso strettamente uniti con le patrie tradizioni. Curerà altresì che i lavoratori non siano fatti oggetto di illeciti profitti e li esorterà ad osservare le norme stabilite dalle leggi. D’altra parte, egli si darà premura d’istillare negli emigrati anche la consapevolezza di ciò che essi debbono al popolo che li ospita e che cerca di facilitare il loro progressivo adattamento alla nuova forma di vita, specialmente se si tratta d’intere famiglie che intendono di rimanere stabilmente in quella terra.
Uno spiccato senso di prudenza occorrerà inoltre al missionario nei rapporti con le autorità religiose e civili, in modo da coordinare gl’interessi dei fedeli con le particolari esigenze delle leggi e, possibilmente, coi giusti desideri delle persone investite di potere. Si danno talora condizioni di attrito, la cui soluzione sfugge alle sue possibilità; ma in molti casi è sufficiente la prudente moderazione degli atti e delle parole per stabilire un modo di vivere soddisfacente ambedue le parti.Nelle relazioni dirette coi fedeli il missionario sarà l’uomo dalla inalterabile pazienza. A lui si chiedono gli uffici più disparati ed umili, nelle ore meno opportune, non sempre coi modi più propri. Ma la carità non misura i gradi della dedizione.
Egli sarà pronto ad improvvisarsi maestro, infermiere, minutante, procuratore presso i dicasteri civili, promotore di onesti trattenimenti, assaporando l’intima letizia dell’Apostolo nel farsi tutto a tutti. Proprio questi piccoli servigi, resi con animo lieto, fanno riconoscere all’emigrato la materna presenza della Chiesa (Pio XII, Discorso al primo Convegno dei delegati per gli emigranti delle diocesi italiane Accogliendovi con paterna effusione, 23.07.1957, in : Enchiridion della Chiesa per le migrazioni, nn. 342-349).