Pellegrini e nomadi


iLa parola “pellegrino” mi riporta alla mia infanzia, allorché camminando per una strada cittadina, alla vista di un vecchietto dal cappotto malandato e sdrucito, coi bianchi capelli fluenti a ricciolo sulle spalle, che appoggiava il suo lento, vacillante passo a un nocchiuto bastone rustico, chiedevo alla mamma che mi teneva per mano: “Chi è quell’uomo?”, coll’aria fra incuriosita e spaurita. 

E la mamma mi rispondeva: “È un pellegrino”. Questa immagine mi è rimasta impressa nella memoria fino a oggi. Probabilmente non era proprio un pellegrino, ma un povero barbone, senza fissa dimora, che “pellegrinava” per le vie cittadine in cerca di un’elemosina. 

Certo un’immagine sbagliata, seppure per me suggestiva, del pellegrino, se si considera tale definizione alla luce della storia religiosa della nostra civiltà, antica e moderna, a oriente come a occidente. In realtà, il nome di “pellegrino” viene dal latino “peregrinus” che significava “chi va attraverso i campi”, dal verbo “peragrari”.

Viandanti per fedePiù tardi valse ad indicare quel tipo di camminatore che si sposta da regioni lontane, a piedi, per raggiungere luoghi santi, legati alla propria fede e colla speranza di ricevere particolari premi o indulgenze, a sconto dei suoi peccati.I pellegrinaggi religiosi hanno avuto sempre carattere di massa, e fra essi si devono distinguere quelli legati a una sola religione e a un luogo santo, come: Loreto, in Italia, Lourdes (Francia), Santiago di Compostella (Spagna), la Madonna di Czestochowa (Polonia), dedicati al culto cattolico, da quelli dedicati a religioni diverse, come: Gerusalemme, città santa per il Cristianesimo, l’Ebraismo e l’Islamismo; il picco di Adamo nell’isola di Ceylon, cui fanno capo induisti, buddhisti, musulmani e cristiani; la tomba di S. Francesco Saverio, il grande missionario gesuita del ‘600, cara a cristiani, induisti, parsi e musulmani. 

Anche l’antica Grecia annovera luoghi sacri al culto delle divinità, mete di pellegrinaggio. Ricordiamo, avendolo appreso nei nostri studi liceali: Delfi, famoso per l’oracolo di Apollo; Delo, sacra anch’essa ad Apollo; Epidauro e Pergamo, dedicate al culto di Asclepio, ed Eleusi, centro dei cosiddetti “misteri eleusini”, sacri a Dionisio. Per non dire degli Ebrei: ogni tribù, in epoca arcaica, aveva il suo santuario. Ma dall’età posteriore dei Re, il centro di tutti i pellegrinaggi rimane (fino a oggi) Gerusalemme, specialmente durante le feste di Pasqua, Pentecoste e quella dei Tabernacoli (o Capanne). Anche per i cristiani (come ho accennato sopra) Gerusalemme è città santa e meta per secoli di pellegrinaggi, come Santiago di Compostella in Galizia; questo santuario concorse a creare delle vie nuove di comunicazione culturale e commerciale.Dopo il primo Giubileo episcopale (anno 1300) istituito da papa Bonifacio VIII, essendo caduta Gerusalemme sotto la dominazione saracena, Roma, in quanto sede dei vicario di Cristo, fu scelta come meta privilegiata di pellegrinaggi, soprattutto per la venerazione diventata popolare, dei sudario della Veronica, il lenzuolo che reca l’impronta dei volto di Gesù. 

Tra i ricordi scolastici sopravvive il celebre sonetto dei Petrarca: “Movesi il vecchierel canuto e bianco...” dove il poeta si rappresenta metaforicamente nella figura dei vecchio pellegrino che, prima di morire, va a Roma per contemplare l’immagine di “Colui che ancora su nel ciel vedere spera”. Cultura stanziale e itinerante.

Ma veniamo ora a parlare dei fenomeno dei nomadismo (derivante dal greco “nomàs”, che significa”colui che va errando col gregge”), che non si deve confondere col pellegrinaggio, anche se è pur vero che certi luoghi mete di pellegrinaggi, presentando caratteristiche ambientali (risorse naturali e prosperità di commercio) favorevoli all’insediamento di popolazioni disagiate, si trasformavano in seguito in sedi stanziali di etnie nomadi. Tuttavia, il nomadismo non è di carattere religioso, ma economico e sociale. Il termine nomadismo, da tempi arcaici, indica il connotato di mobilità “assoluta” o “ciclica” (per ragioni di sussistenza) di intere popolazioni (ad es. gli Ungari, i Celti, gli Unni, i Mongoli, ecc.) che si spostavano da una regione all’altra del globo. Pensiamo agli zingari, nomadi dei centro Europa che per secoli hanno mantenuto il carattere della mobilità assoluta, facendone la caratteristica essenziale della loro cultura.

Un autore inglese contemporaneo (purtroppo deceduto prematuramente), Bruce Chatwin, nomade per natura, ha scritto un libro “Anatomia dell’irrequietezza” (ed. Adelphi), che non è solo un’apologia del nomadismo, ma anche un’indagine su quel mistero che è la natura umana, e, in genere, animale. Egli ha sottolineato il contrasto fra il “pensiero selvaggio” e quello “civilizzato”, optando per il primo come il più felice per la condizione umana... Chatwin distingue due categorie di scrittori: gli stanziali e gli itineranti, quelli che funzionano soltanto a domicilio, con la seggiola giusta, dizionari ed enciclopedie e oggi magari un computer...”. Fra i primi egli annovera Flaubert, Tolstoj, Zola, Proust, fra i secondi Melville, Hemingway, Gogol, Dostoevskij, “vissuti per scelta o necessità in una f renetica girandola di alberghi e camere d’affitto - e l’ultimo - in una prigione siberiana” (Attilio Sartori, Pellegrini e nomadi, “Betlemme, 5, 99, pp. 22-23).