Riflessioni sulla pastorale dei migranti


Dialettica in pastoralePer sua natura l’apostolato tra i migranti è dialettico: ha in sé tesi e antitesi; bisogna cercare la sintesi. Nel lavoro tra i migranti gli estremi si toccano.

L’emigrante è una provocazione all’universalità. Chi cammina rompe le frontiere, si apre al mondo, vorrebbe sentirsi a casa sua in qualsiasi regione, perché la terra è patria di tutti. Spesso il gruppo etnico crea comunità chiuse, ghetto, spirito razzista, rifiuto di altri gruppi. Il favorire la propria lingua e i propri costumi dovrebbe essere una sinfonia pentecostale, ma spesso si riduce a una torre di Babele.

Una parrocchia territoriale nutre in sé una contraddizione: è struttura fatta per residenti. Non si fa un auto per star fermi, né una poltrona per correre.Migrante con i migranti.

Bisogna condividere l’avventura del camminare nel deserto. Le strutture e i programmi sono pigri per natura loro, fatti a tavolino, decisi in congressi.Quasi sempre a scrivere le più belle poesie sui poveri sono i ricchi, i professori a far saggi sugli analfabeti, i non-migranti a far programmi d’aiuto ai migranti. Per questo Mons. Scalabrini ebbe l’intuizione di dare agli emigranti non parroci ma missionari. 

Missionario ed emigrante sono la stessa cosa: due persone che si stancano quando non camminano.In emigrazione la dominante è la mobilità; per questo si chiama «mobilità sociale». Ogni intervento sembra arrivi sempre in ritardo e fuori posto. 

Si ha l’impressione di nascere già vecchi. Perché? Perché ogni struttura ha bisogno di stabilità mentre le migrazioni sono mobili, nascono in momenti imprevisti, vanno per canali non fabbricati. L’emigrante rompe gli schemi, è frutto di una società e di una economia sbagliate al servizio del capitale. 

Le strutture pastorali quindi, prima di essere per i migranti, devono esser «migranti», ossia mobili.In questo contesto, due sono le tentazioni: eliminare le strutture di assistenza o renderle assolute. La struttura in sé non aiuta direttamente la persona: una segreteria parrocchiale, un’opera di assistenza sociale, vale per il cuore della persona che la occupa più che per le pratiche che svolge. 

Bisogna passare da una presenza - assistenza a una presenza - messaggio. Se la nota principale della pastorale migratoria è l’intensità dell’amore verso il migrante, la vera pastorale dev’essere missionaria. Non siamo al servizio dei migranti ma del messaggio di Cristo. 

Per cui il problema principale di tale pastorale è il pastore, non i migranti.Universalità d’azioneIl momento difficile è sempre la presenza vivace ed evangelica del pastore; le strutture stancano e molti missionari muoiono come missionari - vittime del lavoro apostolico. Il cervello divide, il cuore unisce. Le idee separano, le necessità legano. Nelle strutture pastorali il pericolo più grande è il «ghetto», il chiudersi nel proprio gruppo parrocchiale, etnico o religioso. Corriamo il rischio di essere come il sacerdote della parabola evangelica: sulla strada di Gerico non si fermò perché il ferito non era «della sua parrocchia», della sua nazione. 

Più che al malato pensò alle sue idee, ai suoi programmi.Il programma non è passare da un gruppo parrocchiale a un gruppo etnico, ma passare un gruppo umano all’umanità tutta. Non è difficile essere chiesa, il difficile è essere chiesa cattolica, cioè «universale».Utopia ed EucaristiaTutti gli studiosi di pastorale affermano che il centro più grande di unità, la radice più profonda di comune unione è l’Eucaristia nei due aspetti di presenza di Gesù nella Parola di Dio e nella forza del suo Corpo. 

Ma succede che abbiamo messo l’Eucaristia al servizio delle nostre intenzioni. Non va bene parlare di Messa dei giovani, Messa degli italiani, Messa degli studenti... è una contraddizione! L’Eucaristia è il sacrificio di tutta l’umanità diventata famiglia di Dio.Bisogna avere il coraggio di bruciare le proprie piccole barche ideologiche per andare al largo dell’oceano eucaristico, vincolo di unità e segno di fratellanza. Non è utopia... è Eucaristia.

Il manuale della pastorale tra i migranti è la parabola del Buon Pastore. Nel deserto di Giuda la pecora senza pastore muore perché non sa trovare né acqua né cibo; così pure muore il pastore senza le pecore perché non avrà nient’altro per sfamarsi. 

Così dev’essere per le pecore - migranti: senza l’amore del padre muoiono. L’emigrante come operaio cerca lavoro, come uomo cerca amore. Quando il missionario dà cose e non cuore, muore come missionario.Migranti missionariDiceva S. Vincenzo de Paoli: «Con i poveri si salveranno i poveri... i poveri sono i miei padroni». Così con gli emigranti si salveranno gli emigrati. Mons. Scalabrini, prima di fondare i suoi missionari per gli emigrati, fondò la «San Raffaele», una associazione di laici. 

Ebbe l’intuizione di salvare i laici con i laici. Erano laici ricchi: marchesi, conti, nobili... forse per questo non ebbe tanto successo; ma il programma andava bene. Sono stati sempre i migranti a essere i primi missionari del Vangelo: da Paolo di Tarso ai migranti portoghesi. È vero che esportavano i sette vizi capitali, ma è anche vero che hanno trasportato e aiutato il poverello di Assisi.Il cristianesimo è arrivato in America con gli emigrati: un Vangelo un po’ sporco e coloniale, con molte spade e poche croci, o con la croce fatta a spade... però è arrivato con loro: Dio scrive sempre dritto sulle righe storte degli uomini (Idee e proposte di P. Tarcisio Rubin, cs, † 1983)