Vocazione dei migrante


Vocazione dei migrante Investire nella formazione cristiana del migrante significa aiutarlo a scoprire la sua vocazione più autentica, quella di ricordare alla chiesa locale il dovere di vivere la cattolicità e di realizzare la sua vocazione missionaria, diventando cioè una chiesa “capace di andare verso un ‘altrove’, per comunicare la sua realtà e per arricchirsi di nuovi valori” (Documento dei Missionari della Svizzera, Capiago 2, 3). Il migrante riceve da Dio la vocazione a ricordare alla chiesa locale che deve rinunciare ai rapporti di forza, di potere e di numero. Questo “esodo” comporta un aprirsi ed un purificarsi delle strutture organizzative e delle espressioni religiose indigene, garantendo la comunione (non confusione) tra diverse culture ed espressioni di fede. “Comunione non significa uniformità ma compresenza, accettazione, accoglienza della diversità, nel culto come nella quotidianità della vita” (P. Scaramuzzetti, “Servizio Migranti”, 4, 1993, p. 209). La vocazione del migrante diventa icona della vita che tutti i cristiani devono abbracciare. L’invito di Dio ad “uscire dalla propria terra” ci obbliga ad emigrare verso l’altro con il nostro bagaglio culturale e a “riconoscerlo”. Il modello pastorale unico è Cristo, il migrante del Padre. Il martirio della comunione proviene dallo Spirito e in questo modo si realizza pienamente il progetto del Padre. Accettare l’esodo come elemento portante della nostra vita mette continuamente in discussione strutture e metodi attuati dalle comunità emigrate e dalle comunità di accoglienza dato che la nostra vocazione del cristiani non è quella di mettere radici, ma di camminare riconoscendoci reciprocamente (Mt. 25): un cammino di comunione e di universalità partendo dalla individualità di ognuno, una anticipazione di Paradiso.