Essere cristiani oggi - 2013


Essere cristiani oggi

1. Nel corso di questi gli ultimi anni, abbiamo redatto quattro lettere
pastorali circostanziate. Nella prima, Divenire adulti nella fede, noi
abbiamo voluto sottolineare il cambiamento della situazione. Ci siamo
lasciati guidare dall'affermazione di Tertulliano: “tu non sei nato
cristiano; devi diventarlo!” La Chiesa stessa, abbiamo scritto allora, deve
riscoprire la radicale novità del Vangelo. La fede e il Vangelo sono
divenuti un corpo estraneo nella nostra cultura, ma ecco perché vale la
pena di (ri)scoprirli. Le lettere successive hanno perseguito lo stesso
scopo. Sottolineano la grande importanza dalla Parola di Dio, del credo e
dei sacramenti vissuti nella loro autenticità.
In questa nuova lettera, più breve, ci indirizziamo sempre a tutta la
comunità credente del nostro paese per dire che anche oggi vale la pena di
essere cristiani. Non che noi ci stimiamo superiori agli altri. Noi ci
teniamo a onorare e rispettare le convinzioni di ognuno, cosa al quale il
Vangelo stesso ci invita. Ma se la fede cristiana è vissuta in modo
semplice e autentico, diventa sorgente di pace e di profonda umanità. Se
orientiamo la nostra vita verso Dio, se lo cerchiamo e l'amiamo con tutto
il cuore, questo non ci allontana né dai nostri contemporanei né dalla
nostra responsabilità in questo mondo. Questo conferisce alla nostra
esistenza una profondità, un'ampiezza e una pienezza che ci era
sconosciuta fino ad ora. È veramente "quello che l'occhio non ho potuto
vedere, quello che l'orecchio non ha potuto ascoltare... tutto quello che
Dio ha preparato per quelli che lo amano" (1Co 2,9).
In questa lettera riflettiamo su come cambia la vita quando siamo cristiani
e cerchiamo di vivere in quanto tali. Cosa significa essere cristiano è
come possiamo impegnarci per esserlo veramente? Sono interrogativi che
diventeranno sempre più cruciali per l'avvenire dalla Chiesa. Noi
invitiamo tutta la comunità credente a prendere a cuore queste domande e
a riflettere. È con questa intenzione che vi proponiamo alcune riflessioni.
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2. Appartenere a Qualcuno
"Nessuno ha mai visto Dio" (Gv 1,18). È quanto dice l'inizio del Vangelo
di Giovanni. Ma la Scrittura ci trasmette la buona novella che Dio si è
fatto conoscere. Non è un Dio indifferente che basta a se stesso. Lui ci
cerca, vuole entrare in relazione e fare alleanza con noi. Ecco la nostra
gioia e la nostra felicità: abbiamo imparato a conoscere Dio. Questa
alleanza ci fa molto bene. Noi non siamo degli anonimi. Noi siamo
conosciuti e amati. Supponiamo che nessuno si interessi di noi e che noi
non contiamo per nessuno. Che senso ha ancora la vita? Ma noi siamo
conosciuti e amati non soltanto da quelli che ci sono cari, ma da Dio, che
ci ha dato la vita. "La donna dimentica il suo bambino, dimentica di
mostrare la sua tenerezza al figlio della sua carne? Anche se lei lo
dimenticasse, io non lo dimenticherò" (Is. 49,15).
Questo è il cuore della fede cristiana: noi siamo conosciuti e amati da
Dio. Non si tratta soltanto di una teoria o di una filosofia della vita, nel
suo Figlio Gesù, Dio ci è venuto incontro. L'esperienza fondamentale del
cristiano è di essere radicalmente accolto. Il cristianesimo non è prima di
tutto una dottrina una morale, la contiene naturalmente, ma prima di tutto
è un incontro. Il Vangelo, è la parola viva di Dio, attraverso la quale Lui
ci promette il suo amore. Chi si affida a questa verità non avrà la
soluzione a tutti i suoi problemi, tuttavia, ogni cosa è diversa: non si è più
soli né abbandonati a se stessi. Si appartiene a qualcuno, ci si sente in
qualche modo a casa propria. Molti nostri contemporanei sono alla ricerca
del senso e di un punto d'appoggio per la loro vita. Sotto questo aspetto i
cristiani fanno un'esperienza meravigliosa. Cercano anche loro,
certamente, ma, cammin facendo, sperimentano che, nella loro ricerca,
sono loro stessi ricercati. Per un credente, questo cambia tutto.
3. Gesù, Figlio di Dio, fatto uomo
"Dio è amore" leggiamo nella prima epistola di San Giovanni (1Gv 4,8).
Ma questo amore non è semplicemente un'idea. È venuto a noi "A più
riprese e in diversi modi", come dice la lettera agli Ebrei (1,1), fino ad
oggi, anche nella nostra stessa epoca. Ma è in una sola persona che ci ha
promesso tutto il suo amore, una volta per tutte. Questa persona unica è
Gesù Cristo. Noi lo confessiamo come Figlio di Dio. È questa confessione
che ci rende cristiani.
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Per molti, Gesù è una figura ispiratrice. Molti ebrei lo vedano come il
figlio di Abramo. L'Islam lo considera come un gran profeta. Anche per
quelli che non credono in Dio, non lo si può separare dallo sviluppo
morale culturale della nostra civiltà. Ma tutto questo non dice ancora ciò
che Gesù é per noi. Nella sua persona, Dio stesso è avvenuto fino a noi; è
ancora e sempre attraverso di lui che Dio ci è vicino. Lui è il vivente. A
più riprese e in diversi modi in effetti, Dio ha parlato. Ma ormai, è
attraverso il Figlio che si parla, tanto che Gesù può dire: “Chi ha visto me,
ha visto il Padre" (Gv 14,9). Se noi abbiamo accesso a Dio, è per mezzo
di Lui, con Lui e in Lui.
Noi siamo discepoli di Gesù. Lui ci ha chiamato e noi abbiamo risposto.
Dal nostro Battesimo, è in rapporto a Lui che ci chiamiamo "cristiani".
Noi siamo uniti a lui "come i tralci alla vite" (Gv 15,1-8). In tutto quello
che noi realizziamo in quanto Chiesa, come in ogni ricerca di
rinnovamento e di ricarica, la nostra priorità assoluta sta nella nostra
relazione e comunione con il Cristo. Noi dobbiamo ascoltarlo
pazientemente nella sua Parola e nel suo Vangelo. Colui che ascolta
veramente sa che risuona sempre nuovo, anche per noi. E ciò che Lui dice
è vero: "Io sono la via, per la verità e la vita" (Gv 14,6).
4. Morte e resurrezione
Da sempre diventiamo cristiani attraverso il battesimo. Nei primi secoli
della Chiesa, era nella notte di Pasqua che i nuovi cristiani venivano
battezzati. E oggi ancora, in occasione della liturgia della veglia pasquale,
la Chiesa rilegge ciò che Paolo scriveva sul battesimo nella sua lettera ai
Romani: “Noi tutti, che siamo stati battezzati in Gesù Cristo, è nella sua
morte che siamo stati battezzati. Se, grazie al battesimo nella sua morte,
noi siamo discesi nella tomba con Lui, è perché noi viviamo una vita
nuova, proprio noi, alla stessa maniera di Cristo che è resuscitato tra i
morti, grazie all'onnipotenza del Padre. Perché se noi siamo già uniti a
Lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche grazie ad una
risurrezione simile alla sua. Noi lo sappiamo: l'uomo antico che è in noi
è stato crocifisso con Lui affinché questo essere di peccato sia ridotto
all'impotenza, e così noi non siamo più schiavi del peccato" (Rm 6,3 - 6).
Il battesimo è così compreso come una morte con Cristo così da
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resuscitare insieme con Lui per una vita nuova ed eterna. È anche
l'esperienza fisica che viviamo nel battesimo: veniamo immersi
nell'acqua, totalmente immersi, per uscirne rinnovati e ri-nati. È il mistero
della Pasqua: il passaggio dalla morte alla vita. Ogni volta che una
comunità ecclesiale si riunisce la domenica per l'eucaristia, è per celebrare
questo mistero pasquale: il Cristo è passato dalla morte alla vita, non
soltanto Lui, ma anche tutti quelli che, per il battesimo, muoiono e
risuscitano con Lui. Non soltanto in futuro, un giorno, nell'aldilà, ma già
ora nel corso di quest'esistenza fragile e effimera. L'amore di Dio ha vinto
la morte e tutto ciò che essa comporta. Tale è il mistero pasquale del suo
Figlio. È per questo che Paolo dice a quanti sono stati battezzati: "Nella
stessa maniera, anche voi: considerate che siete morti al peccato e vivi,
per Dio, in Gesù Cristo" (Rm 6,11).
Questo è ciò che fonda la certezza e la gioia profonda del cristiano. Non si
tratta di una gioia a buon mercato, superficiale, come se si ignorasse il
peso dell'esistenza e della sofferenza, o la profondità del male. Il Cristo ha
condiviso la nostra esistenza, fino all'estremo, fino alla morte. È disceso
fino nelle tenebre più profonde. "Discesa agli inferi", come dice il credo.
Lui non è sfuggito alla sofferenza, all'ingiustizia, e neppure alle tenebre
del male. Lui le ha attraversate. Ed è in questa maniera che ha sconfitto il
loro potere. Queste realtà certamente sono ancora presenti e potenti, ma
non hanno l'ultima parola. Ecco ciò che fa dei cristiani degli uomini e
delle donne di speranza, anche quando tutto sembra opporsi.
5. Riconoscenti e liberi
La società attuale è molto esigente nei confronti dei suoi membri. Devono
dare molto. Si esige molto, non solo per un'affermazione personale, ma
anche a livello di relazioni. Col rischio che si abbia a domandare troppo,
e questo porta all'angoscia, alla delusione, allo stress e alla perdita di
libertà. Noi desideriamo poter gioire della vita senza alcun limite, ma
invano. Noi evitiamo rotture e sofferenze, non sapendo come affrontarle
perché ci confrontano alla nostra finitudine. La fede evidentemente non
dà soluzioni immediate, ma propone un'attitudine fondamentale che ci
aiuta a ritrovare una freschezza d'animo e una confidenza fondamentale.
In quanto credente in Dio, io so che tutto non dipende da me, e da me
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solo, e che non ho tutto in mano. Noi non siamo dei, anche se mi sono
stati dati tantissimi doni , non soltanto da quelli che mi stanno vicino, che
mi aiutano o che sono ben disposti nei miei confronti. La vita stessa, il
fatto stesso che io esista è un dono, un regalo del quale io posso sempre
meravigliarmi. Io devo naturalmente prendere il mio destino in mano, e
sono responsabile di tutto ciò che faccio o che rifiuto. Ma non sono
creatore di me stesso. Il senso della mia vita non dipende da ciò che io
posso realizzare. Io non mi sono fatto da me stesso!. Io non mi riduco al
mio progetto personale.
Ecco l'esperienza fondamentale di un credente: sapere di aver ricevuto un
dono infinitamente grande che lo rende profondamente riconoscente. È
questo che ci libera dal peso che dovrebbe sopportare un individuo se
fosse lasciato a se stesso e apre uno spazio per respirare liberamente e
senza pregiudizio, cosa che si percepisce particolarmente in San
Francesco e in Santa Chiara d'Assisi. Si racconta a proposito che quando
ella morì al termine di una vita estremamente povera e incerta, la sola
cosa che fece, fu di lodare Dio per averla creata.
La riconoscenza è la caratteristica fondamentale della vita cristiana. Non
solo nel quadro della liturgia o della preghiera personale, ma lungo tutta
l'esistenza: riconoscenza per tutto ciò che mi è stato dato e per le persone
che mi sono attorno, riconoscenza anche e soprattutto per Dio che è
venuto fino a noi, riconoscenza perché ci ha dato suo Figlio. Noi abbiamo
molto valore ai suoi occhi. Avere ricevuto così tanto, gratuitamente.
6. Generosi e pronti a perdonare
Essere amati da qualcuno, può darsi che dipenda dall'aver fatto qualche
cosa per questa persona o perché siamo importanti per lei. Ma nel
profondo di noi stessi, sappiamo sempre che non l’abbiamo meritato. È la
stessa cosa con Dio. Non è venuto fino a noi in funzione della nostra più o
meno grande dignità, o per il fatto che non correva un gran rischio, al
contrario, come dice Paolo: "Cristo è morto per noi quando eravamo
ancora peccatori" (Rm 5,8).
Ecco perché emerge così sovente il perdono nella Scrittura e specialmente
del Vangelo. Non è soltanto per quelli che lo meritano che Gesù annuncia
la buona novella del regno dei cieli; nessuno è escluso!. Non perché sia
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indifferente ciò che una persona fa o non fa, come se Dio fosse
indifferente e non fosse toccato da ciò che fanno gli umani o dalla
maniera in cui essi si trattano reciprocamente. Ma non si può ridurre una
persona a ciò che fa. È normale che ci si mostri buoni verso quelli che
sono buoni verso di noi, dice Gesù (Mt 5,46), ma che cerchiamo di
esserlo anche per quanti non sono buoni nei nostri confronti, per il nostro
rivale o perfino per il nostro nemico, ecco ciò che mostra che siamo figli
di Dio.
Gesù sapeva anche mostrarsi fermo, specialmente verso quanti erano duri
verso di altri, quanti si consideravano superiori e migliori, verso quelli
che ringraziano Dio di non essere come gli altri (Lc 18,9 -14),verso quelli
che pensavano d'aver diritto all'amore di Dio o meglio ancora di
meritarlo!. Gesù non sopportava una tale mentalità, non fosse altro perché
sappiamo che anche a noi stessi è stato perdonato molto. E’ l'orgoglio e,
peggio ancora se ha una legittimazione religiosa, che è all'origine di tanto
male e discordia. Quando i discepoli domandano a Gesù quante volte
devono perdonare, risponde loro: "fino a settanta volte sette" (Mt 18,22),
cioè: sempre, come Dio fa per ciascuno di noi.
Perdonare non viene da sé. Si può avere subito molti torti e il male non
può essere né ignorato né ridicolizzato. I peccati devono essere confessati.
Perdonare può domandare del tempo. Ma si è disposti a fare il primo
passo? Oppure siamo fermi sulla rivendicazione dei nostri diritti? in
questo caso l'avvenire è chiuso. Il Vangelo è fondamentalmente una
parola di riconciliazione. Dal momento che sappiamo che Dio ci ama
gratuitamente, senza merito da parte nostra, non possiamo esigere
dall'altro ciò che Dio stesso non esige da noi. "Beati i quali che fanno
opera di pace: saranno chiamati figli di Dio" (Mt 5,9).
I cristiani sono degli uomini delle donne di riconciliazione, degli artigiani
di pace, sia nelle relazioni interpersonali che nelle tensioni e conflitti
sociali. Non si tratta di una riconciliazione al ribasso. Il perdono può
essere un lungo cammino. Anche nel cuore delle tensioni, delle
polarizzazioni, dei conflitti all'interno della Chiesa, il nostro primo
impegno deve essere quello a cui il Vangelo chiama concretamente in
questo momento. Si tratta di vedere se veramente siamo servizio del
Vangelo, o al contrario, siamo schiavi delle nostre proprie posizioni o
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idee. Abbiamo così tanto bisogno di perdono. Non smettiamo di pregare:
"perdonaci le nostre offese come noi perdoniamo a quanti ci hanno
offeso" (Mt 6,12).
7. Con rispetto e senza violenza
Sappiamo che Gandhi ammiravo molto Gesù. Non era cristiano, ma indù.
Le beatitudini e il sermone della montagna l'hanno sempre molto scosso.
Vi trovava sostegno e ispirazione per la sua lotta non violenta contro
l'ingiustizia e l'oppressione. La non violenza è preziosissima. E non
soltanto nei rapporti tra i popoli, ma anche nelle nostre relazioni
reciproche. Esercitare un potere sull'altro, nel bisogno attraverso la
violenza, ci allontana gli uni dagli altri. È sconcertante vedere come
questa non violenza e la rinuncia ad ogni esercizio di potere siano scolpite
nel cuore del Vangelo.
Il potere rivela la forza vitale di una persona. Ma quanto può essere
minaccioso e distruttore. È una tentazione molto grande di far pesare il
proprio potere su altri. Il Vangelo ci ricorda come Gesù ha voluto
resistervi. Non ha cercato di imporre il suo Vangelo né con la forza né
con la violenza, ma soltanto attraverso una parola senza difesa e
attraverso dei segni. Luca ricorda che, anche in occasione dell'ultima
cena, i discepoli discutevano tra loro per sapere chi fosse il più grande.
Allora ha risposto che questa era una questione all'ordine del giorno per i
potenti, ma che non doveva porsi tra i discepoli (Lc 22,24 -27): qui il più
grande è il servo, dice Gesù e in effetti è ciò che lui è stato. È così che
Giovanni Battista l’ha qualificato: un agnello che prende su di sé
l'ingiustizia e il peccato, non per debolezza o per mancanza di coraggio,
ma a partire di una forza interiore, quella di un amore senza difesa, il solo
che può salvarci. Una celebre profezia di Isaia intravede il fine di ogni
cosa, nel giorno del Messia, quando ogni sofferenza sarà superata e
ciascuno potrà andare senza difesa all'incontro con l'altro, in un mondo
riconciliato. "Il lupo abiterà con l'agnello... il lattante si divertirà sul nido
della vipera" (Is 11,6. 8). "Non si imparerà più a battersi" (Is 2,4). Bei
progetti? Sì! Ma non puramente immaginari. Essi possono prendere forma
già oggi, benché piccoli e fragili che siano. Perché è la vocazione di una
comunità di Chiesa manifestare fin d'ora ciò che fonda la nostra speranza.
È così che il Vangelo mostra di non essere una fuga spirituale. Insegna e
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ci aiuta a trattarci gli uni gli altri con umanità, anche al centro delle sfide
e dei conflitti sociali. Il Vangelo mostra allora la sua forza vivificante. È
su questo punto preciso che, come cristiani, dobbiamo interrogarci, anche
in rapporto alle nostre relazioni all'interno della Chiesa.
8. Nella gioia e nella semplicità
Evocando le relazioni reciproche, il Vangelo non parla soltanto di rispetto
e di non violenza, ma anche di soldi e di ricchezza, perché possono
diventare una potenza alla quale vendiamo il nostro animo. È il caso dei
paesi e dei popoli ricchi. Sono minacciati di perdere la loro anima. Non si
riesce più ad assaporare le piccole cose della vita. Si diventa insaziabili e
si perde la propria gioia di vivere. È allora che sorge anche la minaccia
del potere, la stessa violenza. Perché è la proprietà che deve essere difesa.
È spesso il caso dei poveri delle scritture: Dio generalmente è il loro solo
rifugio. Anche i profeti prendono loro difesa, Gesù stesso si sente
chiamato, secondo le parole di Isaia, "ad annunciare la buona novella ai
poveri" (Lc 4,18). Sono queste le prime parole del sermone della
montagna: "Beati i poveri in spirito: il regno dei cieli è per loro" (Mt
5,3). Ecco ciò che definisce i suoi discepoli. Sono "Beati" non per il fatto
che sono poveri, ma perché è a causa di Lui che lo sono diventati. Non è
prima di tutto per il valore intrinseco di una vita ascetica, ma perché con
la ricchezza e il possesso si rischia di ripiegarsi su se stessi. Si è in
agguato. Si delimita il proprio territorio e si sorveglia la porta. È questo il
pericolo: che siamo sufficienti a noi stessi e non siamo più disponibili né
per il prossimo né per Dio e per ciò che volesse donarci o domandarci,
anche all'improvviso.
Ecco perché Gesù fa riferimento spesso al bambino: "se voi non cambiate
e non diventate come bambini non entrerete nel regno dei cieli" (Mt
18,3). Il bambino non ha ancora imparato a barricarsi, a proteggersi, a
difendersi. Lui non ha né un doppio pensiero né malizia, si fida
totalmente di suo padre e di sua madre. È a causa della sua fiducia
illimitata che Gesù si è riconosciuto così bene nel personaggio del
bambino é così che si situava nel suo rapporto col Padre, perché si
riconosceva figlio.
La ricchezza e il lusso possono asfissiare. La semplicità ha un gran prezzo
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perché insegna ad essere attenti a ciò che è veramente importante. Si è
parlato di San Francesco che amava la povertà. È una maniera strana di
parlarne! Non aveva pertanto niente di un asceta nel senso tradizionale del
termine, ma sapeva come la ricchezza può allontanare una persona da se
stessa e dal suo prossimo. Era il poverello, perché voleva essere fratello.
Ecco perché non voleva possedere proprio nulla. Come il figlio dell'uomo
che "non ha dove posare il capo" (Lc 9,58). Ecco un "privilegio" al quale
era stato personalmente fedele anche quando il suo ordine seguiva altre
vie. È questo "privilegio" che gli ha permesso di dare al Vangelo una
forma così tangibile e concreta.
Noi conosciamo a proposito della Chiesa primitiva, "La moltitudine di
quelli che erano diventati credenti avevo un cuore solo è un'anima sola e
nessuno considerava come propria proprietà uno qualunque dei suoi
beni" (At 4,32). Che questo sia stato sempre vissuto in maniera
conseguente è un'altra questione. Ma si è conservato una viva coscienza
dell'importanza di questa atteggiamento per chi si chiama cristiano. Noi
dobbiamo lanciarci nella ricerca di uno stile di vita semplice e autentica,
proprio in una società dove il benessere e il possesso sono considerate
cose così importanti. La crisi economica che probabilmente non è che al
suo inizio, mette fortemente in questione il nostro sistema sociale ed
economico. Noi dovremo riscoprire cos’è la semplicità e la vera
solidarietà. I cristiani portano qui una la grossa responsabilità.
9. Servizio e solidarietà
Dio non è né indifferente né autosufficiente. Quando il popolo non
rappresenta ancora nulla e che vive una vita di schiavo in Egitto, Dio
dice: “Ho visto la miseria del mio popolo in Egitto e l’ho sentito gridare
sotto i colpi dei suoi capi di lavoro. Si, io conosco le sue sofferenze. Io
sono deciso a liberarlo dalla mano degli egiziani" (Es 3,7-8). Quando gli
ebrei scappano da quest'esistenza moribonda e fanno alleanza con Dio, si
impegnano nello stesso tempo a non infliggere gli uni agli altri quanto
avevano dovuto subire in Egitto. Questa è l'alleanza conclusa da Dio con
il suo popolo: che i membri del suo popolo si trattino gli uni gli altri con
umanità, come lui li tratta. È come un filo rosso che attraversa tutta la
Scrittura: che amino Dio con tutto il loro cuore e di conseguenza, il
prossimo come se stessi. Questi due comandamenti sono indissociabili:
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"se qualcuno dice: io amo Dio, e odia suo fratello, è un impostore" (1Gv
4,20).
Questo invito alla solidarietà e al servizio non finisce mai di risuonare.
Nella Scrittura, i beneficiari sono citati per nome: i poveri e gli stranieri,
in modo speciale, le vedove e gli orfani. Senza la solidarietà verso gli
altri, la loro situazione era senza speranza. Ancor oggi, questo si applica a
tutti quelli che soffrono in una maniera o nell'altra e che sono in difficoltà.
L'azione della Chiesa non si limita alla liturgia o alla catechesi. È proprio
perché siamo cristiani, che abbiamo accolto la parola del Vangelo e
celebriamo la liturgia, che siamo chiamati a farci amici dei poveri e a
vivere forme concrete di solidarietà. Se possiamo comunicare alla vita di
Dio e essergli intimamente uniti, è perché possiamo essere segno del suo
amore per tutti e in particolare per quelli la cui dignità umana è
minacciata. Essere cristiani non si riduce quindi a un affare privato. I
cristiani affrontano anche loro le grandi questioni e le sfide dei loro tempi,
si impegnano nella società e possono assumere delle responsabilità
politiche. Non si tratta soltanto della salvezza delle anime. Il Vangelo ci
insegna come vivere insieme, fiduciosi gli uni negli altri in quanto fratelli
e sorelle. Con tutti gli uomini di buona volontà, i cristiani s’impegnano
con ardore alla costruzione di una società più umana e più giusta. Li
troveremo pertanto dove la vita e la vera umanità sono distrutte o
minacciate.
Come annunciare il Vangelo affinché tocchi il cuore di una persona del
nostro tempo? È la nostra sfida più grande. Di solito le parole del
linguaggio ci mancano. Ma siano allora i nostri atti che diano
testimonianza di ciò a cui ci invita il Vangelo. Che i nostri atti esprimano
ciò che certe volte è difficile formulare. Le nostre parole non sono
comprensibili che in un contesto di una vita effettivamente evangelica.
10. Attenti all'umano
Vorremmo attirare l'attenzione su un ultimo elemento. La fede non è
semplicemente una questione religiosa che sarebbe indipendente o
marginale in rapporto a ciò che costituisce la nostra vita, come se accanto
a tutto il resto, abbiamo ancora dei bisogni religiosi. È la questione di Dio
che è posta nel Vangelo, ma questa è indissolubilmente legata a quella
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dell'uomo, e non unicamente alla domanda del senso ultimo della sua vita,
ma pure alla qualità di questa. Il Vangelo non si riduce dunque a conferire
un senso religioso alla vita, ma fa pure vivere diversamente. Lui rinnova
la vita. È quanto significa il battesimo. Il Vangelo insegna a condividere,
insegna a che punto tutto appare vuoto se ci si accontenta di guardare noi
stessi e a che punto può contribuire all'edificazione di una società più
degna ed umana.
Dio e l'uomo non possono essere concepiti l'uno senza l'altro. Non
possiamo pretendere di credere in Dio senza seguirlo e comportandosi
come se Dio non fosse per nulla coinvolto. La liturgia e la preghiera sono
di un'estrema importanza. È là che possiamo incontrare Dio attraverso la
sua parola e i sacramenti. Ma è soprattutto alla mensa eucaristica che noi
siamo nutriti a fortificati per amare e donare la nostra vita come Lui ci ha
dato l'esempio. Il contrario è altrettanto vero: colui che ha incontrato Dio
e che ha imparato a conoscere Cristo, scopre pian piano ciò che è la vera
umanità e fino a che punto questo lo può portare.
Bisogna tenere costantemente presenti i due capi della catena: la liturgia e
la diaconia, la ricerca di Dio e l'impegno per umanizzare la società.
Questo deve essere percettibile nelle nostre liturgie. Non perché non
vogliamo più utilizzare il linguaggio della fede, ma perché "le gioie e le
speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di questo tempo, dei
poveri soprattutto di quelli che soffrono" (Gaudium et spes 1) non
possono essere passati sotto silenzio. È necessario che si percepisca che al
centro del nostro impegno a servizio del prossimo e della società non
ricerchiamo noi stessi ma solo Lui che ci ha amato per primo.
In conclusione
I tempi sono cambiati. La nuova situazione ci invita a riscoprire
l'originalità e la bontà del Vangelo e a vedere come il fatto di viverlo
riempie l'esistenza. Vale la pena di discuterne insieme.
Cercare insieme ciò che significa concretamente il fatto di mettersi alla
sequela di Gesù è la prima priorità che deve fissarsi la Chiesa. Per
raggiungere questo scopo, possiamo ispirarci e aiutarci gli uni gli altri.

I vescovi del Belgio - settembre 2012
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