Perdono. Siamo proprio sicuri? - 28.07.2013


don Marco Pedron
XVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)
Vangelo: Lc 11,1-13 


Il vangelo di oggi ci presenta la versione del Padre Nostro di Lc, che è più breve rispetto quelle di Mt che tutti conosciamo e che di solito recitiamo.
Il fatto che ci siano due versioni del Padre Nostro ci fa capire che Gesù non ha dato una preghiera fissa, rigida, con parole precise (come facevano tutti i rabbini del tempo) ma piuttosto una traccia, alcuni punti su cui orientarsi, una strada che poi ognuno percorre con la sua modalità.
La preghiera di Gesù aveva un effetto sanante e liberante. Allora non c'è da stupirsi che i discepoli lo pregassero così: "Signore, insegnaci a pregare".
In Lc, Gesù mostra ai discepoli non solo per che cosa devono pregare, ma soprattutto in che modo e con quale disposizione.

Quando pregate dite: Padre.
Padre è una parola molto ambigua, ingannatrice, perché noi abbiamo l'esperienza dei nostri padri e dei nostri genitori e proiettiamo su Dio le nostre immagini di padre. Ma Dio è Padre alla maniera di Dio e non alla maniera umana.
Un ragazzo ha raccontato: "Mio padre mi ha picchiato molte volte; alcune volte non riuscivo neppure ad alzarmi dal letto e gli ematomi si vedevano per giorni. Ma ciò che era peggio era che picchiava mia madre e la trattava come un oggetto. Io non dico mai il Padre Nostro e tu puoi capire bene il perché. Ogni volta che dico "Padre Nostro" mi viene da vomitare". Come dargli torto. Ma Dio non è padre così.
Un giorno un bambino chiese a sua madre: "Mamma chi è Dio?". Allora la madre lo prese, lo strinse forte tra le sue braccia e gli disse: "Cosa senti?". "Sento che mi vuoi bene". E la mamma: "Questo è Dio".
Dio è Padre così. Finché non faremo questa esperienza di un amore abbracciante, di non paura, di non giudizio, di libertà infinita, di accoglienza, di essere al sicuro tra le sue mani, saremo ancora nell'anticamera di Dio.
Sia santificato il tuo nome. Molte persone quando leggono questa frase pensano alle bestemmie, al parlare male, all'usare in malo modo il nome di Dio.
Bestemmio (non santifico) Dio quando vivo al di sotto delle mie possibilità; bestemmio Dio quando mi lascio vivere, quando smarrisco per paura, per dipendenza o per attaccamento il mio viaggio, quando non ho occhi per cogliere la sua presenza fra di noi. Certe vite sono una bestemmia a Dio perché non si costruiscono, perché si ridimensionano, perché rinnegano con la loro vita la Vita, perché sono inutili, futili, superficiali e banali. Allora posso anche confessare parolacce e bestemmie, ma devo soprattutto chiedere perdono e convertirmi quando la mia vita è il rinnegamento della grandezza, della meraviglia e dello stupore di Dio riposto in me. Ogni volta che io vivo al di sotto della mia grandezza io non santifico Dio che mi ha creato grande.
Qadosh (q-d-sh) "santo" in ebraico indica "la cruna di un ago (q) che entra (d), che è porta nella grande montagna di Dio (sh)". Cos'è un ago nei confronti di una montagna? Nulla: questo è quello che sappiamo di Dio. Allora: "Non limitare Dio alla tua mente". Dio è più grande, Dio è oltre, Dio è un'esperienza che non avrai mai finito di scoprire, di capire, di conoscere, di sperimentare, e per quanto tu possa fare ti valicherà sempre, ti stupirà sempre, ti sorpasserà sempre". Questo è il mistero di Dio.
Santo vuol dire "separato, eccedente, oltre", o come direbbero i giovani "fuori". Dio è sempre più in là. Gli Ebrei non pronunciavano neppure "Iahwè" ma diceva sempre "Adonai" per dire Dio. Come a dire: "Dio non lo si può pronunciare perché nessuno lo conosce, nessuno sa chi è, nessuno quindi possiede il suo nome".
Noi parliamo di Dio per poter dire qualcosa, perché abbiamo bisogno di esprimere ciò che viviamo, ciò che proviamo. Quando parliamo di Lui parliamo sempre della nostra esperienza di Lui ma non di Lui, perché Dio è l'in-definito, l'in-finito, cioè colui che sta sempre al di là.
Bestemmia è quando le persone conoscono la cruna di un ago e dicono: "Questo è Dio". Bestemmia è quando Dio viene usato per scopi politici; per interessi religiosi o per fare seguaci; per legare a sé le persone, per sottometterle a qualche autorità o quando viene ridotto a qualche pratica. Di fronte a Lui non mi resta che inchinarmi e far silenzio perché Lui è Santo, Altro, Oltre.

Venga il tuo regno: si realizzi, accada, si compia in me ciò che tu vuoi.
In tutte le culture c'è il desiderio di un regno di pace, di giustizia, di verità. Anche nell'A.T. c'era questa speranza. Dapprima si depose questa speranza in un re che avrebbe eseguito, applicato, manifestato la giustizia di Dio. Ma nessun re era così! Poi ci si attaccò ai sacerdoti e al culto del tempio, ma il culto senza la conversione del cuore è inefficace. Allora si aspettò un intervento diretto di Dio (apocalissi). Altri ancora lo volevano instaurare con la forza (zeloti) o con l'osservanza pia alle leggi (farisei). Ad un certo punto venne Gesù che non disse più: "Il regno verrà!", ma: "Il regno è vicino" (Mc 1,15).
Il regno è la possibilità che io ho di instaurare in me la signoria di Dio. Io posso trasformare questa possibilità in realtà, permettere al regno di realizzarsi, di accadere, rendendolo manifesto con la mia vita, con le mie scelte, con i miei pensieri. Altrimenti, pur essendo una possibilità reale, vicina, a portata di mano, rimane non realizzata.
Quando mi impegno perché la mia vita diventi più vera, il regno accade in me. Quando il mio amore diventa meno possessivo e condizionante, quando io divento più aperto e meno giudicante, il regno accade in me. Quando lotto per l'ingiustizia nel mio ambiente di lavoro; quando alzo la voce di fronte alle ipocrisie, quando non permetto con il mio silenzio agli altri di umiliarmi e di umiliare, allora il regno accade in me. Quando mi espongo, quando non mi tiro indietro di fronte alle sfide, ai conflitti, al male che mi si oppone, quando metto in gioco la mia vita per la solidarietà, la comunione, la verità, il regno accade in me.
Ogni volta che io prego "venga il tuo regno" sto chiedendo che Dio faccia di me il suo strumento, che ciò che Lui vuole si realizzi attraverso di me.

Dacci ogni giorno il pane quotidiano.
Gesù dovette usare l'espressione "lehem huqi" che vuol dire il "pane che costruisce". Questa espressione, in greco epiousion, "sopra la sostanza" e in latino "pane super-sub-stantialem", si riferisce a qualcosa che comprende ma che va ben oltre al pane quotidiano, formula molto riduttiva.
L'idea di nutrimento in ebraico (hatrifeni) contiene l'idea di "conquista", di trofeo, di qualcosa che mangiando raggiungi (non a caso in greco tropheuein vuol dire nutrire).
Allora: ciò che mangio mi nutre, mi costruisce, mi fa. Come il cibo naturale (pane, pizza, verdura, frutta...) mi costruisce, mi fa vivere o mi intossica, diventa me stesso - io divento ciò che mangio e ciò che mangio diventa me - così ciò "di cui mi nutro" ogni giorno mi costruisce, mi fa', mi forma o mi de-forma.
"Mangiare" esperienze positive, momenti di preghiera, stare con persone positive, che ammettono i propri errori, vivere in ambienti mentalmente aperti e affettivamente ricchi, essere in movimento e in cambiamento, perdonare, cambiare, tutto questo "cibo" giorno dopo giorno mi costruisce e mi forma.
Venire a messa ogni domenica, partecipare a liturgie ricche di vita, piene di Dio, tutto questo nel tempo mi costruisce, mi alimenta, delinea la mia fisionomia.
"Mangiare" esperienze negative, rimanere in ambienti familiari, amicali, lavorativi di chiusura, di odio, di rancore, di soffocamento; non perdonare, vivere stressati, non darsi occasioni di silenzio, di pace, di gioco, d'amore; essere sempre rigidi, controllati e prevenuti; vivere mal-dicendo o con persone che maledicono sempre, mi "costruisce" negativo, mi de-forma, mi dis-fa.
Non è la singola domenica che ti fa cristiano ma giorno dopo giorno, domenica dopo domenica, rimanendo lontano dal cibo sostanziale, dal cibo vero che è Dio (il canto, la comunità, il vangelo, il clima, la partecipazione, il coinvolgimento, il corpo eucaristico) rinsecchi, diventi sterile e vuoto.
Noi diventiamo ciò che facciamo.
Noi diventiamo ciò di cui ci cibiamo, ciò di cui ci nutriamo, le persone e gli ambienti che frequentiamo, cosa facciamo, e le esperienze che scegliamo. Tutti siamo condizionati, ma sta a me decidere da chi farmi condizionare. Tutti devono mangiare, ma sta a me decidere cosa voglio mangiare. Sta a me decidere da cosa farmi nutrire. A me spetta stabilire se questo cibo (persone, esperienze, circostanze, incontri) mi fa bene o non mi va bene; se nutrirmi di questo o cambiare. Gli amici che abbiamo, le liturgie e gli incontri a cui partecipiamo, le esperienze che facciamo, le persone che abbiamo vicino - è bene saperlo per non vivere da illusi credendo che noi saremo superiori a tutto questo - ci nutrono, cioè, ci condizionano, influiscono su di noi, ci formano o ci de-formano, ci fanno o ci dis-fanno.
Allora una grande scelta della vita è coscientemente tenere il "cibo" che ci costruisce ed eliminare quello "guasto", quello che ci fa male.
Quando un cibo in frigo è avariato lo gettiamo via, è ovvio: non si capisce perché questo lo facciamo per il cibo e non per la nostra anima. Se un cibo ci fa male - è ovvio - non si mangia. Eppure noi continuiamo a cibarci di robaccia, di cibi avariati, vecchi, malsani.
Tu diventerai quello di cui ti nutri ogni giorno: sappilo e non incolpare nessuno. Giorno dopo giorno tu ti costruisci: all'inizio la differenza sembra nulla ma nel tempo sarà chilometrica.
Quotidiano (epiousion-supersubstantalem) non indica di certo il pane quotidiano del fornaio. E' il pane sostanzioso, il pane vero, quello che sfama l'anima, quello sopra la sostanza.
Allora, ogni giorno io ho bisogno del pane dell'anima: un po' di silenzio, un dialogo profondo su di me, sulla vita, su Dio, sull'anima, aprirmi e raccontare il mio profondo, una parola, una lettura che mi insegni qualcosa, che mi faccia riflettere, il contatto con la natura, un abbraccio dove io mi possa sentire contenuto, amato, uno sguardo non giudicante che mi entri dentro e che non si vergogni di me, un po'di preghiera dove sentirmi a casa, al sicuro, tra le braccia di Lui, cantare un canto religioso, dell'anima, concentrarmi sul mio respiro per sentire la vita che vive in me, chiudere i conti in sospeso, dire ciò che devo dire, ricentrarmi sulla mia strada, sul mio motivo di vita. Ogni giorno: la felicità, la pienezza, la sazietà della vita dipende da questo coraggio, da questa disciplina quotidiana.
Io posso costruire la mia vita, io lo posso fare: non in un colpo solo ma ogni giorno, un po' alla volta. Tutto ciò che faccio forma o deforma, è messaggio positivo o negativo. Io posso piano piano plasmare la mia vita, nutrirla, darle la forma che io desidero. Non è vero che siamo in balia degli altri, della società, del mondo. Io mi posso fare. Dobbiamo smetterla con il dire che è difficile, che non si può, che la società non aiuta.
Nutrirsi ogni giorno di cose buone, di esperienze vere, di persone profonde e illuminate, nel tempo ci farà così. Ma devo scegliere perché una cosa non vale l'altra e non scegliere è già una scelta. Uno dei compiti più grandi della vita è scegliere ciò che ci nutrirà, che ci condizionerà.
Dio è dappertutto, ma una liturgia, un incontro, un'esperienza, una persona lo rendono visibile e altre lo nascondono; le une ti passano energia, le altre negatività e noia. Devo scegliere cosa voglio che mi nutra. Non è vero che una cosa vale l'altra: una donna non vale l'altra; avere per amico te o un altro non è la stessa cosa; non vale neppure per il cibo figuriamoci per l'anima. Se scegliamo lo shampoo, il bagnoschiuma, il dentifricio, l'acqua di quella marca e non di quell'altra, perché non dovremmo farlo per ciò che forma l'anima? Ma sarà ben più importante!
Non prendere mai la prima cosa che ti capita, che hai sottomano; non prendere mai una cosa solo perché ti passa davanti ma decidi, scegli tu quella che fa bene alla tua anima. Sono io che decido come costruire la mia vita, io ne sono l'artefice, il protagonista, il creatore, giorno dopo giorno, scelta dopo scelta, dicendo "sì" a questo nutrimento e "no" a quell'altro.
"Pane" lehem è "sale" melah (stesse lettere, solo invertite): il nutrimento di ogni giorno, i mattoni della mia vita, sono la mia saggezza,. Il pane substantialem costruisce in me la persona che devo diventare e mi fa fecondo, saggio, penetrante nel mistero della vita, di Dio e dell'universo.
Il pane substantialem di ogni giorno costruisce dei giorni salati, pieni di senso e di significato. Persone mature, vere, profonde, autonome, non s'improvvisano: si costruiscono giorno dopo giorno, con la disciplina di chi si "nutre sano", di chi fa scelte, di chi lavora per costruirsi.

Poi Gesù dice: "Perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore".
Il "pane" (l-h-m) e la "saggezza" (m-l-h), sono anche "perdono", mahol (m-h-l). Il perdono è il pane di ogni giorno, è ciò di cui ogni giorno mi devo nutrire per alimentarmi, perché le mie energie siano libere e vitali e non incatenate nel risentimento e nell'odio.
Ogni giorno io devo affrontare la mia collera, la mia rabbia, i miei sentimenti di odio e ciò che mi ferisce. Abbiamo fatto un bellissimo camposcuola con i ragazzi, intenso, profondo, divertente, simpatico, educativo. Ma una signora ha avuto da dire su una stupidaggine attaccandomi in prima persona. Anche se so che è una banalità, anche se so da dove viene la critica, questa mi ha ferito, mi ha fatto arrabbiare. Allora ho iniziato a covare, a macinare, a pensarci, a dirle (tutto dentro di me) un sacco di frasi, di giustificazioni, di parolacce; un vortice di pensieri si è messo in movimento. Due ore dopo ero ancora lì a pensare a quelle poche parole che mi erano state dette.
Il punto è che la collera si autoalimenta, è come buttare legna nel fuoco: più ci pensi, più te la tieni dentro e più l'incendio diventa grande.
Ho dovuto fermarmi - e non è stato facile - e dirmi: "Marco, perdona. Permetti che le persone possano pensare diversamente; quella frase ti ha ferito e hai tutti i tuoi motivi per sentirti così. Ma adesso basta. Non continuare a torturarti, a pensare a quelle parole, non continuare a rimuginarci sopra. Adesso smettila, altrimenti continui a ferirti da solo".
Ogni giorno mi alzo e so che il pane sostanziale, nutriente di oggi sarà il perdono. Devo perdonarmi che ho sbagliato, che ho fatto un errore: "Sì, ho sbagliato; sì ho strisciato l'auto; sì potevo essere più attento; sì se avessi ascoltato di più non avrei dato quella risposta così banale o offensiva. Sì, è vero, ma adesso basta. Perdonati, lascia andare".
Devo perdonare che mi succedono delle cose di cui io non sono il controllore, su cui non ci posso fare niente. Mi sono programmato la giornata e la coda per la visita o in banca o il computer rotto mi fanno perdere tutta la giornata. Che farci? Mi verrebbe da rimuginarci, da pensarci per ore e ore, ma ci si può fare qualcosa?. Non mi resta che perdonare, che lasciare andare. E' andata così, adesso basta. Smettila di ritornare lì. Non continuare a ferirti e ad avvelenarti l'anima".
Devo perdonare le persone che tirano giudizi sommari sul mio comportamento, sul mio modo di fare, di parlare, di vivere, che parlano e non sanno, che malignano. Tutto questo mi fa letteralmente "incazzare", ma che ci posso fare? Se posso chiarisco, altrimenti vale la pena di continuare a pensarci e di starci male giorni e giorni? O non è meglio perdonare, accettare che possano pensare così, accettare di essere feriti e dirsi: "Adesso però basta. Hanno detto così, ma tu non sei così, smettila di torturarti e di fare la vittima. Non ci puoi fare niente, lascia andare". Loro mi hanno ferito una volta ma io posso ferirmi per giorni, per anni, se continuo a rimuginare.
Sento che devo ancora perdonare quando si nomina il nome di una persona e non sono sereno al sentire il suo nome, quando avverto che ho ancora qualcosa di irrisolto, ancora del rancore, ancora mi infastidisce. Vorrei che la questione fosse risolta ma non è così. Allora devo perdonare ancora e finché ce ne sarà bisogno, finché un giorno al nominare quella persona sarò sereno, non mi farà più nessun effetto, non provocherà più nessun sussulto in me. L'odio e il rancore si autoalimentano da sé; le frasi negative se continuiamo a pensarle si ingigantiscono, prendono forma, si materializzano, diventano realtà; l'odio e il rancore fanno venire i tic, fanno mangiare le unghie, fanno diventare freddi, rigidi, duri, fanno male al fegato, ammalano il corpo e l'anima, rovinano le giornate. Non è forse meglio perdonare, lasciare andare? Ogni giorno il perdono è il mio pane che devo mangiare, di cui nutrirmi per poter vivere.
Perdono in ebraico si dice anche kafor (k-ph-r), che vuol dire "ricoprire la ferita". Kafor è "prendere in mano" (k) "la fecondità" (ph-r). Mi devo ogni giorno ricoprire di perdono per poter vivere; il perdono è la mia veste di tutti i giorni con cui devi andare nel mondo; il perdono è la mia unica possibilità di fecondità, di essere felice. La felicità è nelle mie mani solo se saprò perdonare.

In che modo e con quale disposizione i discepoli debbano pregare Lc lo chiarisce con le due parabole che seguono il Padre Nostro.
Nella prima racconta di un uomo che ha ricevuto visita nel bel mezzo della notte da un ospite. Ma non ha nulla da offrirgli, cosa penosa per un orientale poiché l'ospitalità è un bene prezioso, sommo per quella cultura. Allora va da un suo amico e sa di procurargli dei problemi, un bel fastidio; sa che l'amico importunato deve alzarsi e aprire la porta sprangata con la trave; sa che fa del rumore e che sveglierà i suoi figli. Ma lo fa lo stesso.
Con questa parabola (11,5-8) Gesù ci invita a rivolgerci a Dio come ad un amico, anche in modo inopportuno, anche in modo sfacciato.
A Dio possiamo chiedere tutto, possiamo raccontare tutto; a Dio possiamo aprirci e mostrare, far vedere tutto ciò che siamo e tutto ciò che pensiamo, anche ciò che non è decoroso, anche ciò che è meschino, anche ciò di cui ci vergogniamo, anche i nostri pensieri cattivi, ripugnanti o aggressivi. Egli, come un vero buon amico, ci ascolterà e ci accoglierà. Nella preghiera c'è spazio per tutto.
La seconda parabola (11,9-13) spiega cosa significa avere Dio per padre.
Ogni padre sa (dovrebbe!) che cosa è bene per i propri figli. Nessun padre darà una pietra al posto del pane, o un serpente al posto del pesce, o uno scorpione al posto di un uovo, è ovvio.
Dio che è il nostro Padre non ci darà mai nulla che possa nuocerci.
Per me questo è molto importante perché di fronte a certe situazioni, a certe congiunture di vita, a certi ostacoli, mi sembra davvero di dover affrontare qualcosa di pericoloso come un serpente o uno scorpione, o qualcosa di duro come una pietra. Allora sapere che Dio non mi darà mai nulla di male vuol dire entrare nella logica che tutto ciò che succede ha un senso, un significato, un valore, anche se a prima vista io non lo capisco, o io lo rifiuti, o io non lo veda o addirittura lo consideri un male. In tutto ciò che mi succede Dio mi parla, mi risponde, mi ammaestra, mi vuol far entrare nella sua logica.
Allora: io chiedo e Lui mi risponde, ma non sempre mi risponde come voglio io. Io cerco e Lui mi fa trovare, anche se non sempre mi fa trovare ciò che io vorrei o che io avrei stabilito. Io busso e Lui mi apre delle porte e delle strade, ma non sempre mi apre le porte e le strade che io ho deciso. So, comunque, che Lui non mi ferisce, so che Lui non mi vuol male e allora, anche se non capisco, mi posso fidare, perché, in realtà, non sappiamo mai cosa sia veramente buono per noi.

C'è una storia orientale eloquente a questo proposito: "Un giorno Akbar e Birbal andarono a caccia nella selva. Sparando col suo fucile, Akbar si ferì il pollice e gridò di dolore. Birbal gli fasciò il dito e lo consolò con le sue riflessioni filosofiche: "Maestà, non sappiamo mai ciò che è bene o è male per noi...". L'imperatore si infuriò e scaraventò il ministro nel fondo di un pozzo abbandonato. Poi continuò a camminare solo per il bosco. Frattanto un gruppo di selvaggi gli venne incontro in pena selva, lo attorniò, lo fece prigioniero e lo trascinò davanti al suo capo. La tribù stava preparandosi ad offrire un sacrificio umano e Akbar fu accolto come la vittima che Dio aveva loro inviato. Lo stregone della tribù lo esaminò attentamente e notando che aveva un pollice rotto, lo respinse perché la vittima prescelta non doveva avere nessun difetto. Allora Akbar si rese conto che Birbal aveva avuto ragione, provò rimorso del suo gesto inconsulto, tornò correndo al pozzo nel quale lo aveva gettato, lo trasse fuori e gli chiese perdono per il male che, tanto ingiustamente, gli aveva causato. Birbal rispose. "Maestà, non deve chiedermi perdono, perché non mi ha fatto alcun male. Al contrario, mi ha fatto un grande favore: mi ha salvato la vita. Infatti, se non mi avesse scaraventato in questo pozzo, io avrei continuato a camminare al suo fianco e questi selvaggi avrebbero preso me per il loro sacrificio. Come vede, Maestà, non sappiamo mai se una cosa sia bene o male per noi".

Buona fortuna? Cattiva fortuna? Chi lo sa? Lasciamo fare a Dio".
Una persona diceva: "Io so che Lui è buono... e questo mi basta".



Pensiero della Settimana
L'Infinitamente grande (Dio)
nell'infinitamente piccolo (uomo);
l'infinitamente piccolo (io)
nell'Infinitamente grande (Lui).